Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Circa diciotto faldoni blu pieni di fogli, fatture, documenti, email e messaggi stampati, sono stati trasportati oggi nell’Aula polifunzionale dei Musei vaticani, qualche minuto prima che iniziasse la ventesima udienza del processo per presunti illeciti compiuti con i fondi della Segreteria di Stato. Il finanziere Raffaele Mincione li ha consultati di tanto in tanto durante le circa sette ore in cui è stato interrogato da tre componenti dell’Ufficio del Promotore di Giustizia, rispondendo il più delle volte sulla base dei propri ricordi o delle competenze sviluppate negli oltre trentacinque anni – come ha specificato a inizio udienza – nel mondo della finanza strutturata. Ed è proprio a quel mondo, con i suoi investimenti a rischio, le fee, i depositi, gli asset e i nav, che Mincione ha fatto riferimento con gergo tecnico, a volte di difficile comprensione, per replicare alle domande dell’accusa, lasciando intendere che bisognerebbe operare in quegli ambiti per capire come certe prassi e trattative che possono sembrare speculative, rientrino invece nella normalità.
Le accuse
Mincione è stato rinviato a giudizio per peculato, truffa, abuso d’ufficio, appropriazione indebita, auto riciclaggio. Tra le diverse accuse, tutte relative all’operazione di compravendita del Palazzo di 60 Sloane Avenue, quella che il broker sarebbe stato il destinatario principale del denaro di cui la Segreteria di Stato sarebbe stata ‘depauperata’, oltre 350 milioni di euro. “Presunte perdite”, secondo Mincione, che sarebbero “tutte da ascrivere alla Segreteria di Stato, la quale ha rinunciato a inoltrare le autorizzazioni dell’immobile senza venderlo né iniziare i lavori”. Per i Promotori di Giustizia, invece, le disponibilità della Santa Sede (circa il 46%) sarebbero state dirottate verso società riferibili a Mincione o nelle quali aveva degli interessi personali, che se ne sarebbe appropriato indebitamente.
Interrogatorio di circa sette ore
Accuse rigettate da Mincione nel lungo interrogatorio, condotto a turno dai promotori Roberto Zannotti, Gianluca Perone e, nel pomeriggio, da Alessandro Diddi. Prima di sottoporsi alle domande, l’imputato ha voluto denunciare la “gogna mediatica” che lo ha “scuoiato come delinquente”. Lui, professionista di lungo corso, come si è definito, con ruoli di responsabilità per banche centrali e colossi anche del settore petrolifero (ha citato Gazprom e Petrobras), con esperienze a Londra, New York, Tokyo, Mosca, che anche con il Vaticano aveva avuto a che fare sul finire degli anni ’90, conducendo un affare che “aveva fatto guadagnare tanto prima dell’entrata dell’Euro”. “È la prima volta che mi trovo in una situazione del genere”, ha detto. “Mai sono stato multato in 35 anni di carriera, mai ricevuto un rimprovero dalle banche centrali che regolano il nostro lavoro”. Adesso, ha detto, “al di là della narrativa dei media, ripresa dai verbali, dove mi si dipinge in una maniera terribile, sono qui a difendermi di gossip, perché finora i fatti contestati ancora non li ho capiti”. Parole a cui ha replicato il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone: “I gossip e i media, il Tribunale non li ha letti in passato non lì considererà in futuro. Abbiamo agito secondo coscienza”.
L’operazione londinese
I fatti sono stati quindi al centro delle successive sette ore di udienza. E anche le cifre. A cominciare dai milioni del Palazzo di Londra, acquistato nel 2012 a 137 milioni di sterline, divenuti 260 dopo varie perizie. Mincione più volte ha rivendicato la validità di questo “progetto bellissimo”. “Un progetto”, ha sottolineato, perché “la confusione in questa storia è parlare di un palazzo quando è un progetto”. L’idea era infatti quella di acquistare l’ex magazzino Harrod’s, modificando la destinazione ad ufficio e ristrutturarlo come abitazione, per poi rivenderlo. “È un palazzo bellissimo, ci passo davanti ogni mattina quando accompagno mia figlia a scuola. Io non volevo venderlo il palazzo, speravo di tenerlo e svilupparlo”.
L’affare Angola sfumato
L’ipotesi della compravendita emerse dopo la bocciatura dell’affare con un pozzo di petrolio in Angola. Fu proprio Mincione a bloccare la Santa Sede dal procedere all’investimento, perché esso non offriva sufficienti garanzie ed erano tanti gli aspetti reputazionali in gioco. Mincione fu coinvolto nella questione perché indicato come advisor esperto dalla banca storica di riferimento della Segreteria di Stato, Credit Suisse, il cui ex area manager Enrico Crasso era dagli anni ’90 consulente finanziario del Dicastero. Mincione svolse una due diligence di un anno e mezzo per rilevare diverse criticità dell’affare del petrolio. Il suo compenso fu di 500 mila dollari “in caso di approvazione o meno”. Dal fallimento di quell’operazione, per la quale fu costituito il fondo Athena, si passò alla proposta a Credit Suisse e Banca Svizzera italiana di investire in 60SA, la società proprietaria dell’immobile londinese, con il trasferimento delle quote in un altro fondo, Goff. “In un dato momento della due diligence, sembrava che l’investimento in Angola dovesse ammontare a 100 milioni di sterline, anziché i 200 ipotizzati all’inizio”. A un certo punto, ha spiegato Mincione, si propose a Crasso di restituire i soldi investiti, ma “la Segreteria di Stato, contenta di come era stata gestita l’operazione Angola, ci disse ‘il denaro c’è, tenetelo, investitelo’”. Era peraltro un momento in cui i tassi di interesse erano pari a zero e costava tenere contanti in banca. Investire era la scelta giusta, ha detto Mincione in aula, chiarendo che come gestori indipendenti “non avevamo bisogno di nessuna autorizzazione per gestire i fondi affidati. Dovevamo solo gestirli secondo un prospetto che l’investitore accetta”.
Disinvestire
Presto la Segreteria di Stato decise di uscire dal fondo. Per Mincione fu quello uno dei principali errori: “Il mio fondo – ha spiegato – non investe in operazioni ordinarie, non è mai un mordi e fuggi, i fondi investiti sono bloccati per un periodo fisso di 5anni + 2… Se la Segreteria di Stato avesse aspettato il periodo di lock up avrebbe avuto addirittura una plusvalenza di circa 20 milioni”. Tra l’altro, ha spiegato ancora l’imputato, erano stati attuati degli strumenti “adatti” per la Santa Sede, reputata “investitore professionale” in quanto “Stato sovrano”, con forti implicazioni reputazionali. Era stato cioè creato un “fondo bilanciato” (il Goff, appunto) diverso dalle consuete attività dei fondi di Mincione che sottopongono a un “rischio” chi le sottoscrive. La Segreteria di Stato decise ugualmente di disinvestire: “Ero perplesso, non ci sarebbe stata nessuna perdita”.
Il ruolo di Torzi
È in questa fase, come già ricostruito da Tirabassi e Crasso nei loro interrogatori, che entra nelle trattative il broker Gianluigi Torzi, il quale doveva convincere Mincione a trovare un compromesso per far uscire la Santa Sede dal fondo Athena. Com’è noto, nel dicembre 2018 fu organizzata una riunione a Londra, negli uffici proprio del broker, per stipulare il contratto che avrebbe dovuto decretare l’operazione. Torzi “era fully founded dalla Santa Sede”, ha detto Mincione, spiegando pure che una volta il broker gli confidò “di sentirsi usato da Crasso che lo aveva mandato avanti per convincermi a cedere la mia quota. Se me l’avessero chiesta, l’avrei ceduta”. Tutta la vicenda “per me è stata una sconfitta”, ha concluso Mincione, “sono stato mandato via da un cliente che ammiravo tantissimo”. L’interrogatorio proseguirà domani.