Un vademecum di proposte e risposte pastorali per “far crescere la cultura dell’incontro” e arrivare ad “un noi sempre più grande” e “ad una Chiesa sempre più inclusiva”, come indicato da Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2021. E’ il documento “Orientamenti sulla pastorale migratoria interculturale” pubblicato oggi dalla Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede, con la prefazione del Papa. Ventidue pagine e un allegato di “buone pratiche” già attive nella Chiesa, che evidenziano le opportunità interculturali legate agli attuali fenomeni migratori.
Sette capitoli e un allegato di “buone pratiche”
In sette agili capitoli sono analizzate le sfide che emergono dallo scenario migratorio contemporaneo, sempre più globale e multiculturale, dal “riconoscere e superare la paura” al “considerare i migranti una benedizione”. Vengono quindi offerte risposte pastorali adeguate, accompagnate da buone pratiche già in atto ed efficaci. Promuovere l’incontro, una delle sfide presentate dagli “Orientamenti”, significa attuare la comunione della diversità.
Accoglienza e informazione per l’integrazione di migranti e rifugiati
La nuova missione: costruire ponti con la carità
“La presenza di migranti e rifugiati appartenenti ad altre fedi, o non credenti – si legge ancora nel documento – rappresenta una nuova opportunità missionaria per le nostre comunità cristiane, chiamate a costruire ponti attraverso la testimonianza e la carità”. Lo scalabriniano padre Fabio Baggio, sotto-segretario della Sezione Migranti e Rifugiati, sottolinea che “i nuovi Orientamenti nascono dall’esperienza delle Chiese locali ed ad esse vengono restituite con alcune illuminazioni magisteriali.”
La prefazione del Papa: “Chiamati alla fraternità universale”
Nella prefazione, Francesco ribadisce la chiamata “all’impegno di fraternità universale, perché ‘siamo tutti sulla stessa barca’ “ e ricorda, come scritto del Messaggio per la Giornata 2021, che “nell’incontro con la diversità” e “nel dialogo che ne può scaturire ci è data l’opportunità di crescere come Chiesa, di arricchirci mutuamente”.
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Ci dividono nazionalismi aggressivi e individualismo
Purtroppo, prosegue il Pontefice, “nei momenti di maggiore crisi, come quelli causati dalla pandemia e dalle guerre a cui stiamo assistendo, nazionalismi chiusi e aggressivi e l’individualismo radicale, spaccano e dividono il noi, sia nel mondo che all’interno della Chiesa”. E il prezzo più alto “lo pagano coloro che più facilmente possono diventare ‘gli altri’: gli stranieri, i migranti, gli emarginati, coloro che abitano le periferie esistenziali”.
Una Chiesa che non distingue tra residenti e ospiti
Questi Orientamenti pastorali, scrive ancora Papa Francesco, “ci invitano ad ampliare il modo in cui viviamo l’essere Chiesa” e “ci spingono a vedere il dramma dello sradicamento prolungato e ad accogliere, proteggere, integrare e promuovere i nostri fratelli e le nostre sorelle”. Ci offrono, ancora, “di vivere una nuova Pentecoste nei nostri quartieri e nelle nostre parrocchie, prendendo coscienza della ricchezza della loro spiritualità e delle loro vibranti tradizioni liturgiche”. Solo così la Chiesa è “autenticamente sinodale” in cammino: una Chiesa che non distingue “ tra autoctoni e stranieri, tra residenti e ospiti, perché in questa terra siamo tutti pellegrini”.
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Gesù ci dice che lo incontriamo nel rifugiato
E’ Gesù, conclude il Papa, che “ci dice che ogni occasione di incontro con un rifugiato o un migrante è un’occasione per incontrare Lui stesso”. E nel suo Spirito riusciamo ad “abbracciare tutti per creare comunione nella diversità, armonizzando le differenze senza mai imporre un’uniformità che spersonalizza”. Così le comunità cattoliche “sono invitate a crescere e a riconoscere la vita nuova che i migranti portano con sé”.
Padre Baggio: un documento nato dalle esperienze locali
Il documento vero e proprio si apre con una citazione dall’
02/09/2021
In vista della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2021 che si celebra il 26 settembre, prosegue la campagna del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale …
Quali le sfide principali poste da uno scenario migratorio sempre più globale e multiculturale le principali risposte pastorali che il documento propone?
Quando abbiamo cominciato la consultazione con i nostri partner, ci siamo subito accorti che viviamo in un mondo pieno di sfide. Sono sfide dovute soprattutto a delle culture che sono ormai diventate imperanti in alcuni territori particolarmente, ma un po’ in tutto il mondo, come per esempio la cultura dello scarto. Il Santo Padre l’ha evidenziato in più di un’occasione: lì dove alcuni gruppi di persone, vengono esclusi dallo sviluppo umano integrale, vengono lasciati fuori da quello che è il progresso, il benessere e vengono così discriminati. Vengono commesse nei loro confronti determinate ingiustizie che poi devono anche risolte. I migranti e rifugiati fanno spesso parte di questi gruppi di esclusi, lasciati ai margini, gli abitanti delle periferie esistenziali. Allora nel momento in cui si propone una pastorale migratoria interculturale, si guarda invece all’inclusione. Le sfide dell’inclusione sono per esempio le capacità di superare la paura che spesso ci impedisce di andare all’ incontro dell’altro e del diverso. La capacità o l’incapacità di poter strutturare una comunità che accoglie, la nostra comunità cristiana, che apre degli spazi particolari alle persone che sono appena arrivate. Oppure la sfida di una missione che oggi non ha bisogno di grandi distanze da percorrere per essere realizzata, perché la missione arriva direttamente a casa. Quindi gruppi di migranti anche non battezzati, non cristiani che possono aggiungere nostre porte e arrivano a vivere nei nostri quartieri e che oggi rappresentano di fatto uno stimolo e una sfida al nostro vivere la missione. Non ultima la sfida della cooperazione, della collaborazione. (…) Nella Chiesa tante persone, tante organizzazioni, tante congregazioni, tante diocesi e organismi ecclesiali, stanno lavorando per poter costruire una Chiesa sempre più inclusiva, che realizza la propria cattolicità, ma al tempo stesso ci rendiamo conto che molto spesso si lavora per cammini separati. Quindi collaborare vuol dire mettere insieme le risorse, programmare insieme, realizzare le attività insieme e anche essere capaci poi di valutare insieme il nostro operato.
Il documento prevede un allegato che segnala le buone pratiche già in atto nelle Chiese locali. Ci può fare qualche esempio di queste buone pratiche?
E’ un piccolo opuscolo che presenta una ventina di buone pratiche. Ognuna di queste cerca di realizzare le raccomandazioni che noi stiamo proponendo nel documento. Mostriamo, in questo modo, che non si tratta di qualcosa di astratto, ma che già si sta facendo in qualche parte del mondo. Faccio un esempio. Parliamo di superare la paura: si può fare attraverso una narrativa diversa riguardo ai migranti, non dipingendoli come criminali o come coloro che vengono a rubarti qualcosa. Lo ha fatto il Centro scalabriniano di Cape Town, in Sudafrica, che è nato qualche anno fa e che attraverso la collaborazione di artisti, fotografi e giornalisti, ha presentato una mostra fotografica dove vengono presentate storie vere di migranti che raccontano la loro esperienza positiva di inclusione all’interno della società, di collaborazione allo sviluppo umano integrale delle società che li hanno accolti. Un altro esempio. Parliamo di promuovere l’incontro: i maristi di El Paso, in Texas, al confine col Messico, hanno fatto questo tipo di esperienza. I loro studenti statunitensi dei college, vengono invitati ad un’esperienza di incontro con i migranti alla frontiera. Lo fanno, vivono un’esperienza di servizio e di amicizia che li aiuta a superare il loro pregiudizi e ad arricchirsi attraverso le storie dell’altro.
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Un ultimo esempio, sull’importanza della missione, che si realizza anche attraverso il mandato che il Papa ci ha dato quest’anno. Il cardinale arcivescovo di Rabat, in Marocco, Lopez Romero, ha pensato di mettere insieme il cammino sinodale con un’esperienza missionaria, chiedendo a tutti i fedeli cattolici di andare all’incontro di persone che non sono cristiane per un dialogo, per un’apertura in un contesto di ascolto sinodale, in cui loro diventano sacramento di Gesù Cristo nei confronti degli altri, loro portano Cristo. Il fondamento evangelico è l’immagine di Maria che porta Gesù ad Elisabetta: andando all’incontro porti Gesù ed è una missione implicita, perché nella tua testimonianza, nel tuo sorriso, nel tuo andare verso l’altro, stai portando Gesù Cristo.
In sostanza possiamo dire che la sfida interculturale più grande, che contiene tutte le altre, è quella di costruire nuove comunità, parrocchie e città che pur conservando le proprie identità culturali, siano aperte alle differenze e sappiano valorizzarle?
Molto spesso si pensa che l’arrivo di nuove persone, soprattutto quando parliamo in un arrivo di massa, possa in qualche modo compromettere l’identità locale o nazionale delle persone. Sicuramente non l’identità religiosa delle persone, in quanto parlando delle nostre comunità cristiane, proprio con l’arrivo di altre persone o attraverso l’inclusione di cristiani e cattolici nelle nostre comunità, o attraverso la missione, noi consideriamo questa come una grande opportunità, un kairos che si presenta. Invece a livello sociale, a livello civile, il fatto è che l’identità nazionale per essere presentata ai nuovi si rafforza, proprio perché c’è anche la necessità di presentarla a persone che non la conoscono, io la conosco meglio. Chi si mette in un dialogo identitario con gli altri, di fatto sente la necessità di rafforzare la propria identità, che però viene arricchita dalla comunicazione dell’identità dell’altro. Non esiste un concetto statico d’identità, esiste un concetto dinamico. Noi siamo le relazioni che abbiamo avuto durante la nostra vita, e più relazioni abbiamo avuto, più siamo cresciuti della nostra identità. L’incontro con l’altro non è un incontro che impoverisce ma un incontro che sempre arricchisce perché sono di più di quello che ero prima. Certo non arricchisce in senso economico, ma in umanità.
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E’ quindi un “allargare la tenda” per includere cattolici da ogni parte del mondo, ma anche, da Chiesa missionaria, costruire ponti e incoraggiare conversioni del cuore attraverso la testimonianza e la carità?
Ci sono due dimensioni particolari dell’esperienza nuova della Chiesa in questo contesto migratorio. La prima esperienza è di inclusione: il sentirsi cattolici a tutti gli effetti nella misura in cui si è capaci di includere i nuovi arrivati, nel momento in cui la tenda viene allargata e c’è posto per tutti. Se questo non succede, abbiamo qualche problemino e dobbiamo chiederci perché non riusciamo ad includere. Il cattolico, in giro per il mondo, riconosce la sua patria in ogni comunità ecclesiale. Ogni Chiesa è la sua Chiesa, solo per il fatto di essere lì. Ma l’altra dimensione è quella missionaria: per coloro che invece non hanno conosciuto Gesù Cristo o che lo hanno conosciuto in un modo distorto, ecco l’occasione per presentare, per far conoscere Gesù Cristo, come lo conosciamo noi. Lo facciamo attraverso la carità: è l’amore che ci permette di presentare all’ altro, all’altra il Gesù Cristo che abbiamo conosciuto e che ci ha salvato.
Accoglienza e testimonianza di carità per l’integrazione di migranti e rifugiati