Michele Raviart – Città del Vaticano
La crisi dei migranti al confine tra Polonia e Bielorussia – anche oggi ritrovato il corpo di un giovane ventenne siriano alla frontiera – ha posto nuovamente l’attenzione sulla cosiddetta rotta balcanica, il percorso spesso utilizzato da chi, proveniente principalmente da Afghanistan, Pakistan e Siria, cerca di raggiungere l’Unione Europea alla ricerca di un futuro migliore.
La rotta balcanica
Tra i Paesi attraversati c’è anche la Bosnia-Erzegovina, che proprio in questi giorni sta anche vivendo una seria crisi istituzionale tra la due entità, quella serba e quella croato-musulmana, che danno vita allo Stato concepito dagli accordi di Dayton del 1995. “La Bosnia-Erzegovina è interessata dal fenomeno migratorio lungo la rotta balcanica da tre anni ha generato ulteriore tensione all’interno del Paese”, spiega a Vatican News Daniele Bombardi, coordinatore della Caritas italiana a Sarajevo. “Quello che sta succedendo in questi giorni tra la Polonia e la Bielorussia è quello che succedeva e che è successo gli anni scorsi tra la Bosnia e la Croazia, o tra la Serbia e l’Ungheria. Abbiamo visto in questi anni molto spesso che nei Paesi dell’est Europa l’Ue sta cercando di innalzare dei muri, di creare un fortino in cui ai migranti è vietato entrare”.
Condizioni non dignitose
“Le persone continuano ad arrivare”, sottolinea Bombardi, “perché vogliono arrivare nell’Unione Europea, ma diventa sempre più difficile. Quindi si fermano in questi Paesi che hanno difficoltà perché sono Paesi fragili e non hanno sistemi in grado di garantire un’accoglienza dignitosa”. Persone che arrivano alle porte dell’Ue non hanno intenzione di fermare il loro viaggio durato settimane. “Chiedere alla Bosnia Erzegovina o alla Bielorussia o alla Serbia di tenersi i migranti sul proprio territorio è quasi un’utopia perché nessuno di loro vuole restare così troppo vicino all’Unione Europea da decidere di non proseguire”, spiega ancora Bombardi, “quindi tutto questo meccanismo sta creando tensioni ulteriori, che di volta in volta vengono pagate, purtroppo dalle persone stesse, dai migranti stessi che sono costretti, come abbiamo visto in questi giorni, a dormire all’aperto e a morire di freddo”.
L’impegno di Caritas e la società civile
In questo contesto, le reazioni della popolazione in Bosnia sono duplici. “Là dove c’è caos, e in Bosnia-Erzegovina ci sono un paio di posti come la zona di Bihac dove non si riesce a gestire il fenomeno migratorio, aumenta anche lo scontento e l’ostilità della popolazione locale, che vede o queste presenze nuove nel territorio, magari in maniera non controllata e ha paura, dando adito a molti politici antimigranti di aumentare la propria retorica xenofoba”, afferma ancora il coordinatore della Caritas. “Nei luoghi”, invece, “dove i meccanismi di accoglienza sono più ordinati e meglio organizzati, anche la popolazione locale è meno ostile”. “Io sono a Sarajevo dove con tutte le difficoltà del caso, però il sistema dell’accoglienza è un po’ più ordinato e non c’è quella ostilità che invece altrove è presente”. “Anche noi come Caritas, sperimentiamo gli ostacoli più difficili là dove c’è un’emergenza e un contesto complicato”, conclude. “Dove invece si riesce a costruire e a gestire dei servizi ordinati, delle accoglienze ordinate si può dare un volto anche più umano a questa accoglienza da parte delle comunità che ospitano questi migranti”.