Marco Di Battista – Venezia
Il Leone d’oro della Biennale musica edizione 2022 è stato assegnato a Giorgio Battistelli, uno dei compositori italiani più noti a livello internazionale. Cerchiamo di conoscere meglio il maestro, partendo ovviamente dal premio. Un Leone alla carriera invita come Giano bifronte a guardare indietro e avanti, lei dove ama guardare?
È proprio questa la domanda che mi feci quando mi fu comunicato dal Presidente della Biennale, Roberto Cicutto, la decisione di darmi il Leone d’oro. Probabilmente ho intravisto la fine di un percorso e perciò ho iniziato a guardare indietro e guardando indietro ho percepito l’arcata temporale e produttiva del mio lavoro fino al 2022: estremamente differenziata, con venature e con spaccature, con tendenze molto diverse. Tutte queste fanno parte di me stesso, di come sono fatto e di come ho sempre pensato la musica. È interessante come tutto questo mi produca una vertigine. Questo girarmi indietro mi obbliga nello stesso tempo a guardare avanti, è un momento di una vertigine produttiva perché attraverso questa vertigine che si genera sei costretto a individuare e a produrre l’impossibile, ciò che non esiste prima. L’assegnazione di questo importante premio è una spinta ad andare avanti. Non lo vedo come un segno conclusivo ma piuttosto un’indicazione: fino ad oggi abbiamo fatto questo, ora si cambia.
La Biennale inizia e termina con due brani degli anni Ottanta, il Jules Verne degli anni 84/85 ed Experimentum Mundi dell’81. Sono stati davvero anni eccezionali per Giorgio Battistelli?
Diciamo che mi ha sorpreso la decisione della Biennale di portare due lavori appunto uno di 41 anni fa e l’altro 38. Sono stati sicuramente anni importanti ma non soltanto per me, sono stati importanti per tanti compositori fondamentali per la scuola della Neue Musik, della nuova musica in Europa. Il rapporto tra la scena e la musica, il rapporto con la musica assoluta, quello occhio-orecchio, sono tutte problematiche su cui i grandi compositori del secondo Novecento hanno riflettuto. Mi riferisco a Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Mauricio Kagel. Fu proprio dopo l’incontro che ebbi con Stockhausen e Kagel nel 1975 presso la Musikhochschule di Colonia, dove studiai per un periodo seguendo i loro corsi, che cominciai a lavorare e ad approfondire questo rapporto tra la scena e la musica. Anche se a dire il vero ho avuto questo punto di riferimento in maniera molto naturale e spontanea a partire dai primi esercizi di composizione, nelle prime armonizzazioni che facevo in Conservatorio. Era una mia necessità mettere a bordo pagina delle note, delle indicazioni di regia, di una drammaturgia invisibile, immaginata. E questo spesso faceva irritare I miei maestri perché ritenevano che non fosse necessario. Ma io non pretendevo che questo fosse comunicato all’esterno, era una strategia di scrittura di cui avevo bisogno. Questo mi ha fatto riflettere e significa che gran parte della mia musica, se non tutta – compresa quella sinfonica e strumentale oltre che quella teatrale – è fortemente legata a una drammaturgia, a una narrazione, a volte evidente altre sotterranea, come appunto in Jules Verne dov’è più ermetica. Gli anni Ottanta sono stati anni davvero molto importanti perché c’era la voglia di costruire un antiteatro, un teatro che fosse in opposizione al teatro dominante che era quello di cui poi ci siamo riappropriati nel decennio successivo quando è subentrato l’anti-antiteatro. Però tutto questo fa parte della mia formazione che, ripeto, è sempre stata fortemente eterogenea, non eclettica ma eterogenea. Ho bisogno di nutrirmi di elementi diversi.
A volte quando scrive per il teatro si ha la sensazione – e penso anche al recente Julius Caesar – che il cuore, il principio che muove il dramma sia l’orchestra, la musica pura, e che da lì si dipani tutto lo svolgimento drammatico. È una sensazione corretta?
È corretta perché parto sempre da un problema compositivo, da un nucleo di materiale sonoro; la strutturazione parte sempre dalla musica e tutto questo per me è fondamentale. Poi per il teatro subentrano altri elementi di cui bisogna tener conto, c’è una dinamica narrativa. La sua domanda è curiosa perché mi è capitato di frequente di parlare con direttori d’orchestra che dirigono miei lavori sinfonici e che mi dicono tutti, da Pappano a Chung, o a Muti – e quindi parlo di grandi direttori – che la mia è una musica teatrale e che ha sempre a che fare col teatro. Anche la composizione che ho scritto per Chailly e la Filarmonica della Scala è un Ouverture sinfonica ma è un’ouverture che sembra fatta per il teatro. Questo è verissimo perché ho sempre bisogno, come dicevo prima, degli appunti a bordo pagina, ho bisogno di questa immaginazione che mi serve come filo conduttore per portare avanti il mio mondo, la mia scrittura che è fatta anche di quadri molto diversi. Mi sono chiesto tante volte quale fosse il motivo di queste mie necessità di guardare l’immagine, di guardare la musica e non di ascoltarla soltanto. Guardare la musica – anche quando la scrivo naturalmente – non lo intendo dal punto di vista grafico ma dal punto di vista formale. Guardo la forma della musica piuttosto che ascoltarla. Questo può sembrare una contraddizione per un compositore che scrive opere, musica, ma io sono fatto così. Forse perché mi sono nutrito di teatro fin da bambino. La mia infanzia l’ho passata in un teatro, anzi in due teatri, che erano di mia nonna, ad Albano, che è un piccolo paese – allora era un piccolo paese – a sud di Roma. Mia nonna aveva due teatri dove ogni fine settimana venivano ospitati spettacoli di varietà, o compagnie di second’ordine – e a volte di terz’ordine – di opere, che passavano di là. Quindi per me era assolutamente normale trascorrere delle giornate intere dentro al teatro ed ascoltare e vedere il teatro che si crea.
Nel suo catalogo ci sono brani come Miracolo a Milano, Divorzio all’italiana eccetera. Come nasce il suo interesse per il cinema?
Diciamo che il cinema è riuscito nella narrazione ad avere una funzione quasi psicanalitica, nel senso di una seduta psicanalitica. Spesso non parto dal film, ma dalle sceneggiature o dai romanzi, come nel caso di Teorema o di Divorzio all’italiana, che fa riferimento dalla sceneggiatura originale di Pietro Germi. Lo stesso è avvenuto con miracolo a Milano. Per tutti questi lavori il materiale di partenza è stato il materiale letterario. Poi la sceneggiatura ha una capacità di sintesi che il romanzo spesso non ha. E quindi l’ho trovata più vicina, più pertinente alle problematiche di scrittura che affronta oggi l’opera contemporanea: spesso si tende ad asciugare il testo. Il rapporto tra il librettista e il compositore a volte è problematico perché il letterato tende a delegare alla parola, a dargli maggiore spazio e ad avere poca immaginazione musicale mentre il nostro Compositore affida alla musica una funzione che non è descrittiva ma è di una comunicazione altra, no? Non c’è bisogno di esplicitare in parole ciò che avviene sulla scena o ciò che può essere tradotto attraverso la musica, come sentimento, come colore. Del resto, la sceneggiatura cinematografica ha spesso un ritmo che manca al romanzo e che però è più vicina a quel che può servire per un’opera.
Come ha deciso di diventare compositore?
Mi viene in mente una frase molto bella dello scrittore Peter Handke, che in un incontro con gli studenti all’università di Graz, quando gli fu posta esattamente questa questione rispose che “questo è l’unico modo che mi permette di relazionarmi con il mondo”. La sua risposta rispecchia esattamente quello che penso. La mia arte nasce da una dinamica relazionale, ho bisogno di mettere i suoni in relazione con il mio mondo che poi è il mondo di oggi, della scienza, della letteratura, del cinema. Di tutto. Questo lo vediamo anche nelle mie opere: che relazione c’è tra Jules Verne ed Ernst Jünger? Oppure tra CO2 e Miracolo a Milano, o in Lot, dove c’è un argomento biblico? Sono tematiche diverse ma forse solo apparentemente: tutto questo fa parte del mio mondo, il mondo di Giorgio Battistelli che non pretendo sia quello degli altri. Una musicologa importante come Helga de la Motte sostiene che in realtà non esistono tante opere di Battistelli ma è un’unica opera che le contiene e sono lì, una dentro l’altra, che mi accompagnano nella vita mettendo in relazione tutto ciò che io tocco, tutto ciò con cui io entro in contatto: è come se fosse un’unica opera che si muove da un perimetro all’altro non c’è un distacco tra un’opera e l’altra ma c’è una continuità.
Possiamo dire che il percorso di un compositore è un percorso attraverso se stesso.
Esattamente. È una verticalità, non è un percorso orizzontale con un primo e un dopo ma c’è bisogno di una verticalità. Bisogna uscire fuori dalla schiavitù del numero cui ormai siamo vincolati. Siamo ostaggi dei numeri anche se non tutte le cose che si scrivono possono avere lo stesso consenso, su questo bisogna rassegnarsi. Personalmente vivo questo con maggiore serenità. Ricordo una conversazione per me molto interessante con Federico Fellini con cui andai a parlare per spiegargli il progetto di Prova d’orchestra. Era forse due anni prima che Fellini morisse, mi trovavo di fronte a un grande regista, non era il Fellini giovane che mi parlava, e rimasi molto sorpreso nel vedere un maestro importante del cinema mondiale, preoccupato del pubblico; non tanto di non avere successo ma di non avere più quella risposta di consensi di una volta e che questo potesse precludergli o condizionare la presenza di produttori cinematografici. Vede come è curiosa e drammatica questa forma di sofferenza, questa paura di non trovare un produttore per portare avanti i propri film. Non c’è la libertà di scrivere una cosa meno importante della precedente. Fu di questo che parlai con Fellini e lui era d’accordo che non tutti i suoi film sono grandi così come non tutte le mie opere sono grandi allo stesso modo. Di questo ho parlato recentemente anche con Wolfgang Rihm. Ascoltando un suo lavoro lui mi disse “guarda questo è un lavoro che non so che portata abbia”. Effettivamente anche io mi aspettavo qualcosa di diverso, qualcosa di maggiore ma lui mi disse “questa è la cosa migliore che io potessi fare in questo periodo”. Questa è la grande conquista interiore che un autore può fare: accettarsi per quello che può scrivere, non quello che dovrebbe scrivere.