Giancarlo La Vella – Città del Vaticano
Sono soprattutto la capitale Bamako e Timbuctu le città in cui migliaia di maliani sono scesi ieri in piazza per difendere la patria, così come è stato richiesto dal governo militare ad interim guidato dal colonnello, Assimi Goita, al potere con un colpo di Stato dell’agosto 2020. Al centro della protesta le misure imposte dall’Ecowas – la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale – al Mali: la chiusura dei confini, cessazione dei rapporti diplomatici e altre sanzioni di carattere economico. L’organismo definisce inaccettabile il ritardo nell’organizzare nuove elezioni.
Elezioni ancora lontane
In base all’accordo tra esecutivo ed Ecowas entro 18 mesi da agosto 2020 si dovrebbe andare alle urne, quindi entro il prossimo febbraio, ma non ci sono ormai i tempi tecnici per organizzare le consultazioni legislative. Ma intanto in Mali è la popolazione civile che sta pagando il prezzo più alto delle sanzioni, che di fatto hanno tagliato il Paese fuori dal mondo. Dopo il golpe, la situazione politica non è del tutto stabilizzata. Nel maggio scorso l’esercito ha arrestato l’allora presidente ad interim, Bah Ndaw, e l’ex primo ministro, Moctar Ouane, i quali hanno subito dopo lasciato i propri incarichi. L’arresto è avvenuto a seguito di un tentativo di rimpasto di governo che avrebbe tolto a due rappresentanti dell’esercito i dicasteri della Difesa e quello della Sicurezza.
Le pressioni internazionali
Nonostante le pressioni internazionali, il 26 settembre, il premier Maiga aveva annunciato che le elezioni sarebbero state posticipate di “alcuni mesi”. Il 30 dicembre 2021, le autorità maliane avevano concluso che il processo per arrivare ad elezioni libere e democratiche sarebbe potuto durare fino a 5 anni. Intanto, vista la gravità della situazione, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres ha chiesto con urgenza a Bamako un calendario elettorale accettabile, mentre Stati Uniti, Francia ed Unione Europea hanno dichiarato il loro sostegno alle sanzioni dell’Ecowas.
La preoccupazione della Chiesa
Di fronte all’aggravarsi della situazione sociale a causa delle sanzioni internazionali, la Chiesa locale ha messo l’accento sul rischio che a pagare siano solo le persone più povere. Monsignor Jonas Dembele, presidente della Conferenza espiscopale del Mali, nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News, chiede dialogo e attenzione alle fasce più disagiate.
Monsignor Dembele, quale è stata la reazione della Chiesa alle sanzioni imposte al Mali?
Quando abbiamo sapute delle sanzioni inflitte al Mali, abbiamo reagito emotivamente. Occorre sapere che il Mali è come un malato grave, e se si infliggono sanzioni economiche ad un malato grave, come la chiusura dei confini, il congelamento dei beni, non so cosa può accadere al malato, se non che rischia di morire. Di fronte ad una tale situazione, la Chiesa dice che siamo una grande famiglia, e quando una famiglia decide di punire uno dei suoi figli, penso che in nessun caso desideri la morte del bambino.
Quale la situazione sociale in Mali?
Certamente la popolazione ha sofferto tanto e tutt’ora continua a soffrire. La Chiesa chiede ai governanti di poter dialogare e di ricercare il bene dei più poveri, poiché ci sono già numerose persone che non hanno più da mangiare. Il dialogo, a parere nostro, è indispensabile nell’attuale situazione e, insieme con la considerazione delle categorie più disagiate della popolazione, costituisce l’appello della Chiesa in risposta alle sanzioni.