Malattie rare, fare ricerca insieme

Vatican News

Eliana Astorri – Città del Vaticano

Nella ricorrenza della Giornata Mondiale dedicata alle Malattie Rare, che si celebra ogni anno il 28 febbraio, l’accento viene posto sull’importanza di “fare rete” per i ricercatori, sia con i colleghi in Italia che con quelli all’estero. La pandemia ha esaltato paure e bisogni di tutta la popolazione, maggiormente in quelle famiglie che vivono una condizione di malattia rara e disabilitante. Che incidenza deve avere una malattia rara per essere considerata tale? Risponde il professor Giuseppe Zampino, Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Pediatria della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS:

Ascolta l’intervista al professor Giuseppe Zampino

R. – Sono malattie che hanno un’incidenza al di sotto di 1 su 2000. E sono tante condizioni che occupano tutte le branche della medicina: dalla genetica all’ematologia, alla reumatologia, all’oculista, tutte le branche della medicina hanno avuto qualcosa di più raro; la maggior parte delle malattie rare sono pediatriche e sono di origine genetica, però nessuna branca della medicina è scevra dall’occuparsi delle malattie rare.

Lo studio congiunto di ricercatori di diverse strutture, laboratori e università è il modo migliore per raggiungere dei risultati, lo abbiamo visto con la ricerca del vaccino contro il Covid. Il personalismo è nemico delle scoperte scientifiche?

R. – Non c’è dubbio. La comunità, specie nell’ambito delle malattie rare, ha necessità di fare forza comune, è l’unico modo per poter avere una quantità di dati necessari per poter ristrutturare una storia naturale di condizioni molto rare. E mettersi insieme non significa solamente mettersi in Italia, ma mettersi insieme nel mondo, dove ognuno porta il suo contributo. La delineazione della storia naturale anche di un unico bambino permette la previsione della storia naturale di tanti altri bambini e delle diverse condizioni, permette poi di fare una prevenzione su tutti gli altri bambini. E’ necessario, per forza di cose, mettersi insieme per arrivare a definire storie naturali, per andare a definire le cause delle condizioni e anche per trovare dei trattamenti, perché per fare dei trattamenti c’è bisogno di fare dei clinical trials per avere delle popolazioni consistenti che, a volte, è necessario avere solo perché si creano comunità di ricercatori che lavorano sullo stesso ambito.

Abbiamo citato il Covid-19. Quest’ultimo anno ha portato ritardi nei controlli, nelle diagnosi, per la paura delle persone di recarsi in ospedale e, quindi, posso immaginare che cosa possa essere successo in ambito pediatrico. I bambini che hanno malattie rare, le loro paure, i loro bisogni, i loro sentimenti. Mi può parlare di questo?

R. – Analizziamole uno per uno. Paura, sì, sicuramente le famiglie che hanno avuto bambini o pazienti con malattie rare e disabilitanti hanno avuto una maggiore paura perché si è detto che il Covid interessava in modo particolare le persone fragili, e qui ci troviamo di fronte a persone e situazioni fragili dove può essere difficile un distanziamento sociale, dove è difficile poter fare un’adeguata igiene, mantenere tutte le norme igienizzanti, dove è difficile mantenere una mascherina e quindi ci troviamo in una situazione in cui già c’è una fragilità legata a una condizione cronica e poi c’è una fragilità dovuta alla difficoltà a rispettare tutte quelle norme che in qualche modo la pandemia ci ha imposto. A questo punto che è successo? Che i familiari hanno avuto molta più paura e hanno fatto un lockdown molto più serrato. Questo significa che, se già questi pazienti vivevano una condizione di lockdown naturale, perché il fatto che vivano all’interno di una famiglia in una situazione un po’ più ristretta è fisiologico, in una situazione già non di pandemia questa cosa ha stretto ancora di più i ranghi. E i genitori, a questo punto, si sono sentiti maggiormente coinvolti nel ritenere loro stessi i maggiori vettori dell’infezione per il proprio bambino. E’ stata forse la paura più importante. La paura che i loro bambini o i loro figli potessero avere un’infezione più grave e che loro stessi potessero essere i vettori di questa infezione. Poi ci sono state numerose preoccupazioni, le preoccupazioni legate a ciò che la pandemia ha determinato: la chiusura di strutture di riabilitazione, la sospensione delle attività scolastiche, la riduzione delle attività elettive degli ospedali. Ovviamente, ha determinato una preoccupazione di regressione del genitore sul fatto che, non potendo il bambino, il paziente, fare attività scolastiche adeguate, non avendo più un supporto di attività continuativa terapeutica, la situazione poteva essere anche in qualche modo drammatica. I bisogni sono stati tantissimi: il bisogno di reperire i farmaci, il bisogno in certi momenti, specie in una fase più stretta di lockdown, durante il periodo di marzo-aprile, di reperire ausili, alcune famiglie hanno avuto difficoltà a gestire il proprio bambino. Immaginate famiglie in cui i genitori hanno contratto il Covid, avevano difficoltà a trovare qualcuno, un caregiver che, in qualche modo, potesse occuparsi di una situazione così complessa, ma forse la più grande difficoltà, il più grande bisogno che hanno avuto le famiglie, le persone con malattie rare, è il bisogno di informazione. Noi abbiamo avuto già difficoltà ad avere delle informazioni solide per le caratteristiche del Covid nella popolazione normale, diventava estremamente difficile su come questo impattava su situazioni difficili, complesse, rare.

Questo ha creato una maggiore fragilità da parte delle famiglie delle persone con malattie rare e di nuovo ritorna il problema principale: che cosa significa ‘rare’? Raro significa non avere un punto di confronto, raro significa non avere un background su cui posso appoggiarmi, raro significa che rimango isolato perché non ho possibilità di confrontarmi con altri ed avere un’adeguata conoscenza. Un’altra cosa che è emersa da un questionario che abbiamo sviluppato attraverso la Società Italiana di Malattie Genetiche Pediatriche e Disabilità: abbiamo chiesto alle famiglie quali fossero le loro emozioni durante questo periodo di pandemia. Ed è stato straordinario perché, certamente noi abbiamo chiesto se avessero avuto paura, rabbia, tristezza, incertezza, vulnerabilità, angoscia, gratitudine, gioia e speranza, e sa qual è il sentimento che è emerso? Il più grande di tutti? La speranza! E perché la speranza è l’elemento principale per questi pazienti?

…è la forza motrice….

R. –  …è la loro forza motrice. Senza la speranza diventa difficile vivere tutti i giorni una condizione difficile, sia in presenza di Covid, sia in assenza di Covid. Quindi, la speranza è il loro motore, la loro forza che gli permette di avere resilienza.

Un quadro chiarissimo di ciò che possono aver provato queste persone e che stanno provando perché siamo ancora sulle barricate per quello che riguarda il Covid. Professore, il vecchio problema delle malattie rare sono le case farmaceutiche che poco investono nella ricerca e nella produzione di farmaci che, appunto, servono a poche persone, a pochi pazienti. Sembra una situazione che stia cambiando in positivo?

R. – Assolutamente sì. Ci sono diversi ritorni da parte delle case farmaceutiche. Prima di tutto, la legislazione rende più facile la sperimentazione e poi il sostegno alle case farmaceutiche che investono nelle malattie rare. E’ vero che i malati rari sono rari, ma sono cronici, per cui hanno bisogno a volte di una terapia che dura tutta la vita e, quindi, questo significa che una casa farmaceutica può avere un ritorno in termini di utilizzo di farmaco all’interno di una singola persona. Ovviamente parliamo sempre di farmaci che, nella maggior parte delle volte, sono ad alti costi. Del resto l’industria deve fare un grande investimento per arrivare a trovare una formulazione di un farmaco adeguato per una situazione rara, ma sempre di più c’è un’attenzione verso quei farmaci che sono stati utilizzati per altre situazioni e che hanno già superato la fase 1 della sperimentazione, cioè quella della sicurezza, e che non sono stati efficienti per alcune malattie e sono rimaste nel cassetto. Questi farmaci sempre di più sono ora utilizzati e visti come possibilità futura di sviluppo, mettendo insieme grandi masse di dati di genetica, di funzionamento dei meccanismi di malattie rare, insieme ai meccanismi di questi farmaci, per incrociare e trovare soluzioni che, in qualche modo, permettano a questi farmaci, a volte farmaci orfani, di essere riposizionati, quindi di avere una loro vita nell’ambito delle malattie rare.

E questa è un’ottima notizia, professore. Il 28 febbraio è la Giornata Mondiale delle Malattie Rare e, fra qualche giorno, il 3 marzo sarà anche la Giornata dedicata ai difetti congeniti. Cosa ritiene utile o doveroso dire a proposito di queste ricorrenze che, seppur annualmente, pongono l’attenzione sul disagio di chi queste condizioni le vive. E si parla soprattutto di bambini.

R. – La cosa che mi auguro sempre di più è che le comunità siano sempre più sensibili, ma non solo a parole, ma attivamente, che sempre di più siano solidali perché le comunità solidali sono la base per ridurre le difficoltà che ogni famiglia può vivere quando si trova in una situazione difficile e le situazioni difficili non sono solamente quelle dei malati rari, ma sono quelle che ogni giorno ognuno di noi può vivere, può trovarsi. E trovare vicino qualcuno che, in qualche modo, lo aiuta, lo sostiene, è fondamentale per sopravvivere.