Madre Teresa un ricordo

Vatican News

di Giampaolo Mattei

E io che pensavo di conoscere madre Teresa… Tanti incontri nelle periferie romane, interviste per «L’Osservatore» — l’ultima il 29 giugno 1997, poco prima che morisse, il 5 settembre, come i suoi poveri e tra i suoi poveri — persino passaggi sulla mia auto dal Vaticano al Laterano o nella sua casa a San Gregorio al Celio… Ma che non avevo capito proprio nulla di lei, preso dalle mie corte logiche superficiali, me ne sono reso spietatamente conto quando ho sbattuto la faccia nella realtà di Calcutta. E sì, ci ha pensato Calcutta, la sua gente, a farmi capire.

«Prepari subito la valigia perché deve andare a Calcutta ai funerali di madre Teresa con il cardinale legato pontificio Sodano, lo ha disposto il Papa». Alle indicazioni di servizio, il professor Mario Agnes, indimenticato direttore de «L’Osservatore Romano», aggiungeva sempre una confidenza spirituale: «E si ricordi di pregare anche per me, mi raccomando!». L’approccio giusto per il servizio da inviato per il “giornale del Papa”. Non puoi che fare il tuo lavoro con la solidarietà del credente (e l’aver a che fare con madre Teresa te lo faceva vivere in modo travolgente).

Ma a farmi “capire” — tipo botta in testa, per intenderci — la santità di madre Teresa non è stato partecipare alle esequie, celebrate il 13 settembre, e neppure assistere al grande tributo, spontaneo e popolare di affetto dell’India intera, lungo le strade, al passaggio del funerale di una donna cristiana.

No, ho “capito” madre Teresa a Calcutta, quando ho avuto paura (e sono scappato) e quando ho incontrato un uomo che ha accompagnato l’inizio della sua missione.

Sì, paura paura. In realtà, credo proprio di non esser mai scappato via così velocemente come quella sera del 12 settembre di 25 anni fa a Moti Jihl: periferia — se si può chiamare così… — di Calcutta. La sera prima delle esequie avevo deciso di prendere un taxi — non ascoltando il suggerimento alla prudenza del nunzio apostolico Giorgio Zur e dell’officiale della Segreteria di Stato monsignor Timothy Broglio — per andare a vedere Moti Jihl: la zona dove madre Teresa aveva cominciato il servizio d’amore — mi sa che altra parola non c’è — nella più devastante miseria dei più poveri tra i poveri.

In India la chiamano “slum”, parola intraducibile usata per indicare i luoghi più ignobili, dove vivono ammassate un numero imprecisabile di persone in condizioni indicibili. Lì nessun censimento è possibile. Le case non esistono. Ci sono tentativi di baracche che galleggiano nel fango.

A Moti Jihl madre Teresa mise i piedi — quei suoi piedi deformati da fatica e chilometri fino a diventare tutt’uno coi poveri sandali — per la prima volta il 21 dicembre 1948 e aprì subito una scuola per bambini. Lei che era maestra. Vista dallo “slum” è ancora più eccezionale l’opera di questa apparentemente esile figlia dell’Europa divenuta madre dell’India.

Le ho percorse a bordo di un taxi — abbastanza improbabile — quelle “strade”. Il primo istinto che assale, con un groppo alla gola, è di scappare via. Gli occhi di quei disperati che ti fissano mettono paura. È la paura dell’enormità del dolore, della tua insufficienza a trovare risposte. Lo sguardo finisce per ruotare attorno, atterrito, e il primo pensiero è che tra poco sarai — finalmente — fuori da quella fogna puzzolente a cielo aperto dove si rincorrono bambini, topi e cani. Ma non si sa chi rincorre chi…

Non me le levo dalla mente quelle persone che rantolavano, si contorcevano in mezzo alla “strada”. E mentre pensi che presto, grazie a Dio, stai per andartene da quell’inferno che odora di morte, quel briciolo di coscienza che hai messo all’angolo ti fa notare che quella gente a Moti Jihl — come nelle troppe Moti Jihl del mondo — ci resta, ci “sopravvive”. Ci muore. E male, ci muore molto male.

Chissà come si chiamava, e se aveva un nome per gli uomini, quel ragazzo, in realtà di età indefinibile, che improvvisamente aveva smesso di gemere. Si era accartocciato su se stesso, restando immobile. Non aveva reagito più neppure quando le mosche si erano posate sulle sue piaghe.

Madre Teresa decise di restare a Moti Jihl, anche “solo” per dare dignità a chi muore tra le mosche. Lì ho “capito” madre Teresa, non certo con le domande di un’intervista.

Moti Jihl spazza via in un istante le caricature sdolcinate di madre Teresa, quelle frasette che spopolano sui social: era una donna forte, estremamente forte. Decisa. Dura. Sì, dura.

Per inciso: dopo la sua morte due suore si sono presentate a «L’Osservatore» chiedendo aiuto per fare il primo archivio della missionarie della carità e suor Nìrmala, la religiosa che le è succeduta alla guida della congregazione, ha “preteso” umilmente un’intervista nella casa Dono di Maria in Vaticano. E tutte e tre lo hanno chiesto «a nome di madre Teresa» che aveva loro suggerito, con disposizioni decise, questi passi prima di morire. Ringraziandoti come madre Teresa aveva sempre fatto: unendo le mani nel segno della preghiera e portandole alla fronte, facendo un leggero cenno col capo. Quel gesto che tutti le hanno visto fare milioni di volte…  e sì, madre Teresa ti guardava negli occhi — Pier Paolo Pasolini  nel 1961 scrisse che quella suora «quando guarda “vede”» — e ti stringeva le mani, come se al mondo ci fossi soltanto tu. Non aveva bisogno di presentazioni. Però avvertivi immediatamente la sensazione di poter avere con lei la confidenza di una madre, una sorella, che comprende tutto, che comprende sempre.

Con lo “schiaffone” preso a Moti Jihl ho capito — meglio, ho avuto la conferma più assoluta — che non ho certo la fede di madre Teresa e neppure la forza di farmi provocare da lei per convertirmi (i santi “servono” anche a scuoterci dalla mediocrità). Non ho la sua consapevole speranza. Ma soprattutto ho capito cosa possano essere la paura e la vergogna se, appena detto al tassista di portarmi via subito, mi è venuto da pensare e pregare: «Madre, scusami…!».

Non sono scappato invece da casa di Michael Gomes, al civico 14 di Creek Lane, viuzza popolosa nel centro di Calcutta. Ho voluto fortemente conoscerlo e lui sì, anche con il suo stile discreto, mi ha fatto “capire” ancora di più madre Teresa. È stato proprio Michael a donare a Teresa nel 1947 il secondo piano della casa dove è poi sempre vissuto, lì a Creek Lane. Ma a dirla tutta, a Teresa lui ha offerto quanto aveva di più prezioso, ben più del secondo piano di casa: sua figlia Magdalena e sua nipote — morta giovanissima assistendo i poveri per strada — sono entrate nelle Missionarie della carità, attratte dalla testimonianza che hanno visto da vicino.

«Vuoi vedere quelle due stanze, vero?”». Questa è gente di pochi convenevoli ma di tanta, tanta concretezza. Senza attendere la mia, scontata del resto, risposta lo vidi salire svelto su per una scala di legno con i passamano in ferro, piuttosto elegante. Lì nulla era cambiato: quei gradini sono stati consumati anche dai sandali di Teresa. A Creek Lane è vissuta dal febbraio 1947 al febbraio 1953.

Da Michael era inimmaginabile avere chissà quale indiscrezione, anche perché di indiscrezioni da confidare non ce n’erano: «Andava tutto il giorno a servire i poveri per strada e pregava tanto, pregava sempre. Non aveva nulla, solo una cassetta che le faceva da sedia e scrivania, un sari di ricambio, un quaderno con la penna, il Vangelo, un’immagine della Madonna e un’immagine del sacro cuore di Gesù». Semplice, no?

Il ricordo più bello di quegli anni? Per Michael nessun dubbio: «Il 19 marzo 1949, per san Giuseppe, bussò alla porta una ragazza. Si chiamava Subashini Das. Era stata alunna di Teresa nel prestigioso collegio St. Mary. La sua famiglia era ricca, il suo sari era tessuto con stoffa di prima qualità. Eppure quella ragazza non esitò un istante a cambiarlo con il poverissimo sari bianco orlato d’azzurro cucito personalmente da Teresa. Per l’India è stata semplicemente una rivoluzione. Scelse di chiamarsi Agnese, il nome di battesimo di Teresa. Era la prima missionaria della carità».

Il racconto di Michael si fermava puntualmente qui. Altrimenti le lacrime di commozione avrebbero preso il sopravvento perché avrebbe dovuto dire che la seconda missionaria della carità si chiamava Magdalena Gomes — sua figlia — e che per trovare la porta di Teresa aveva dovuto solo salire una rampa di scale, con un elegante passamano di ferro.