Livatino, il “piccolo giudice” beato, tra lotta alla mafia e umanità

Vatican News

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Il primo magistrato beato nella storia della Chiesa era un uomo innamorato di Dio, dei suoi genitori e della giustizia, che cercava la normalità del bene e aveva fatto voto di “camminare sempre sotto lo sguardo del Signore”. Rosario Angelo Livatino, che viene beatificato domani mattina, domenica, nella cattedrale di san Gerlando ad Agrigento, in un rito che si apre alle ore 10, presieduto dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, è stato ucciso, “in odio alla fede”, da quattro killer della “stidda”, la cosca ribelle dell’agrigentino, il 21 settembre 1990, quando non aveva ancora 38 anni, ma era in magistratura già da 12.

La reliquia: la camicia azzurra del giudice macchiata di sangue

La sua corsa disperata tra l’erba e i sassi della scarpata sotto il viadotto Gasena della statale che percorreva ogni giorno per andare dalla sua Canicattì al palazzo di giustizia di Agrigento, con la sua Fiesta amaranto senza scorta, rifiutata perché non voleva che altri perdessero la vita a causa sua, inseguito dai suoi aguzzini, verrà rievocata, nel tempio barocco nella città della Valle dei Templi, dalla sua camicia azzurra forata dai proiettili e intrisa di sangue. Sarà la reliquia venerata dal cardinale Semeraro, mentre il coro diocesano canterà l’inno “Sub Tutela Dei”, composto per la beatificazione, subito dopo la lettura della lettera apostolica con la quale Papa Francesco ha iscritto Rosario Livatino nell’albo dei beati, e l’indicazione della data della sua memoria liturgica.

Le ultime parole: “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”

Il postulatore monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, farà risuonare le ultime parole del giudice martire, “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, raccontate dal killer pentito Gaetano Puzzangaro, che ha testimoniato anche al processo di beatificazione. Ma risuonerà anche il grido pronunciato a meno di tre anni dall’omicidio Livatino da san Giovanni Paolo II, proprio il 9 maggio, al termine dell’omelia della Messa nella Valle dei Templi, dopo aver incontrato privatamente mamma Rosalia Corbo e papà Vincenzo, i genitori di Rosario. “Non uccidere!: non può uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare  e calpestare questo diritto santissimo di Dio!” scandì in piedi, stringendo la mano a pugno e poi alzando il dito al cielo, e nel nome di Cristo disse ai responsabili “che portano sulle loro coscienze tante vittime umane”, “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.

Il messaggio dei vescovi siciliani: “Rosario, uno di noi”

In Sicilia risuonano anche le parole dei vescovi, nel messaggio scritto in occasione della beatificazione, che definiscono Livatino ”uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità”. I pastori siciliani scrivono della “giovinezza” del martire canicattinese, della sua professione e della sua professionalità, del significato della sua beatificazione oggi e in questa terra; illustrano le tappe del cammino delle coscienze iniziato con l’assassinio del magistrato, e passato attraverso il grido di Giovanni Paolo II e la lettera “Convertitevi!” dei vescovi di Sicilia per il 25° di quell’appello e fino alla beatificazione; si soffermano sulla “eredità” di Livatino, ma non meno su quella “di Puglisi e di innumerevoli altri fratelli e sorelle, che non saranno mai elevati gli onori degli altari, ma che hanno scritto pagine indelebili di storia ecclesiale e civile, anche ai nostri giorni e anche nella nostra Sicilia!”. 

In trent’anni le cose sono cambiate, ma non abbastanza

”Purtroppo – scrivono i vescovi siciliani – dobbiamo riconoscere che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità”. L’invito è a “ripartire, considerando che in questi trent’anni tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra finito il tempo del grande clamore con cui la mafia agiva nelle strade e nelle piazze delle nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme – meno appariscenti e per questo ancora più pericolose – per infiltrarsi nei vari ambiti della convivenza umana, continuando a destabilizzare gli equilibri sociali. Di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanea ma con azioni sistematiche. Solo così il sangue dei martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza”.

Il lavoro di sette anni del postulatore diocesano don Livatino

Della grande umanità e della voglia di normalità di Rosario Livatino, del suo impegno a camminare sempre “sotto lo sguardo di Dio” e della sua coerenza cristiana e civile, parla a Vatican News don Giuseppe Livatino, il postulatore diocesano della causa di beatificazione, che non è parente del giudice martire, ma per sette anni dal 2011 al 2018, ha letto per il processo canonico tutte le parole scritte sulle sue sette agendine dal magistrato. Ha ascoltato colleghi, familiari, e testimoni raccogliendo questo materiale in più di 4mila pagine.

L’incontro con il killer pentito Gaetano Puzzangaro

Ha incontrato anche, il 3 maggio 2016, nel carcere di Opera dove sta scontando l’ergastolo per l’omicidio Livatino, il killer pentito Gaetano Puzzangaro, 22 anni al momento dei fatti, che dal 1998 ha iniziato un percorso spirituale, accompagnato dal cappellano del carcere, don Antonio Loi, e da altre persone. Puzzangaro ha accettato di testimoniare nel processo di canonizzazione “perché era doveroso – racconta nell’intervista a Fabio marchese Ragona di Panorama del dicembre 2017 − Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto! E lo prego ogni domenica a Messa. Il mio più grande rimorso? Non aver avuto il coraggio di chiedere scusa ai suoi genitori”.

La lettera del pentito ai giovani di Palma di Montechiaro

In un incontro definito dal delegato monsignor Apeciti “intenso, profondo e toccante” il pentito, il 25 luglio 2017, ha testimoniato per la causa di beatificazione. La testimonianza di Puzzangaro è stata importante per il processo diocesano – ha spiegato poi il giudice delegato, don Lillo Argento – è stato disponibile a farsi ascoltare. Le sue parole si affiancano a quelle di tutti gli altri “testimoni”. Ma io la definirei una ‘pietra miliare’ di questo processo di canonizzazione”. il 21 settembre 2017, una sua lettera dal carcere è stata letta durante la cerimonia pubblica di commemorazione del giudice Livatino, che si è svolta a Palma di Montechiaro, la città d’origine dei killer di Livatino, tutti ventenni al momento dell’omicidio, Palma di Montechiaro. “Gli errori, anche i più atroci, vanno riconosciuti – scrive Puzzangaro – anche se recano un dolore che dilania e descrivono il fallimento di una vita: la mia”. E ancora: “Ho il dovere morale di condannare ogni atto criminale, mettendoci la faccia, in nome di chi è morto per la legalità, dei familiari delle vittime, della mia Sicilia martoriata. Ho il dovere morale di espormi come esempio fallimentare per tutti quei giovani che pensano di trovare nella criminalità organizzata eroismo, successo, soldi facili, rispetto. Vi prego: dite no ad ogni forma di organizzazione criminale”. Anche un altro killer, Domenico Pace, anche lui ergastolano, ha chiesto perdono prima del 2018.

Don Livatino: si può parlare di un “magistero” di Rosario

A don Livatino chiediamo, prima di tutto, quali parole di Rosario Livatino l’hanno colpito di più, raccogliendo e studiando i suoi due interventi pubblici e soprattutto le confidenze scritte sulle sette agendine.

Ascolta l’intervista a don Giuseppe Livatino

R.- Le parole che più colpiscono, leggendo le agende di Rosario, scritte con grafia minuta, a matita, certamente sono quelle di preoccupazione che lui esterna riguardo ai suoi genitori. Quando stanno poco bene, ma soprattutto, a partire dal 1984, quando comincia a comprendere che probabilmente il prezzo da pagare per la sua coerenza morale e professionale sarà quello della vita. In quel momento, quando lui finalmente chiude questo periodo, che potremmo chiamare anche di notte oscura della sua vita, nel 1986, quindi dopo due anni, come se dimostrasse di accettare questo probabile prezzo da pagare, ha un’unica preoccupazione: quella di evitare che del male possa giungere ai suoi genitori attraverso di lui. L’unica sua preoccupazione, quel momento non è più la probabilità del sacrificio della vita, ma pensa al dolore che la sua uccisione procurerà ai suoi genitori, che lui che venerava. Questa è una delle cose che mi ha impressionato certamente di più.

Nelle sue agendine, emerge infatti il suo legame stretto con i genitori, ma anche il desiderio di amore coniugale, che non volle e non potè coronare, per i rischi che correva e che avrebbe fatto correre ad una sua eventuale famiglia. Cosa può dirci di questo?

R.- Viene fiori anche qui l’umanità e la normalità di Rosario. Lui ha un grande desiderio: di formare una famiglia, una bella famiglia cristiana. Persegue questo sogno per un periodo di tempo, c’è un fidanzamento ufficiale che poi però va a monte, però la sua tensione rimane sempre quella per una vita normale e ordinaria. Certamente lui faceva bene il suo lavoro, correva anche dei rischi, però la tua ricerca prioritaria era quella della normalità. Tanto che quando i genitori seppero la notizia del suo omicidio, rimasero totalmente turbati, soprattutto per il fatto che non si aspettavano una cosa del genere. Perché lui

non aveva mai trapelare nulla, e perché la stampa non ti era mai occupata di Livatino. Non c’era nessuna intervista, non c’era nessuna notizia che potesse in qualche modo far prevedere ai genitori un epilogo così tragico della vita del giovane figlio. C’è questa sua attenzione, soprattutto, di rimanere nel nascondimento, di fare il suo lavoro di ogni giorno. Collabora strettamente nelle grandi indagini sulle mafie internazionali con Falcone e Borsellino e si trovano tracce anche nelle sue agende di questa attività giudiziaria molto importante. Però rimane il giudice che è sconosciuto ai più: moltissimi anche a Canicattì, non sapevano neanche chi fosse quel ragazzo che vedevano scendere da casa, che vedevano andare alla posta a fare la fila, che vedevano all’edicola a comprare il giornale. Nessuno sapeva, o pochissimi sapevano chi fosse in realtà,  un grande magistrato con una grande responsabilità sulle spalle, e con una grande storia della sua attività giudiziaria.

E quale gesto, atteggiamento o consuetudine del prossimo beato crede descriva bene chi è stato Rosario Livatino?

R. -Certamente ci sono molti episodi, scoperti anche questi dopo la morte. Come quello semplice, ma molto significativo, di recarsi nella chiesa di San Giuseppe, ad Agrigento, ogni mattina, prima di affrontare la sua giornata di lavoro sicuramente pesante e carica di responsabilità. Qui riscrive esattamente quelle famose tre lettere che si trovano su tutte le agende: “Sub Tutela Dei”. Rosario sente un fortissimo bisogno di camminare sotto lo sguardo di Dio, perché è chiamato ad assolvere un compito che è gravoso per un uomo: e cioè quello di giudicare, e lui lo dice anche una delle due conferenze, quella su Fede e Diritto, nel 1986 a Canicattì. Dice: “Il peccato è ombra, e per giudicare occorre la luce.  Ma nessun uomo è luce assoluta”. Quindi c’è questa sua attenzione, questo anelito, a camminare sempre sotto lo sguardo di Dio, per poter svolgere bene questo compito gravoso che è quello di rendere giustizia. Tant’è che per lui stesso il rendere giustizia, diventa dedizione a Dio, diventa realizzazione, diventa preghiera.

Quindi “sguardo” e non “tutela”: perché se il senso è essere sotto la tutela di Dio, Dio non è riuscito a proteggerlo…

R.- La radice latina della parola conduce soprattutto allo “sguardo”. Sotto la protezione di Dio lui si è sentito sempre. Rosario ha sempre avuto una fortissima fiducia e lo vediamo anche nelle agende: vediamo che nei momenti di difficoltà ha sempre e comunque la capacità di mettere tutto nelle mani di Dio. E’ lì che lui si sente protetto, sicuro. Ma ha bisogno di un di più che stavolta dipende da lui: scegliere di camminare sotto lo sguardo di Dio. Perché la protezione di Dio è un qualcosa che viene direttamente da Dio. Il camminare sotto lo sguardo, invece è una scelta che lui fa, ogni giorno, di mantenersi lontano dal peccato, per poter vivere da buon cristiano e soprattutto per poter svolgere bene questo compito, a servizio dello Stato, del corpo sociale.

C’è un altro gesto, quello di recarsi personalmente a consegnare il mandato di scarcerazione per un detenuto a fine pena, perché non trascura neanche un minuto in più in cella di quanto stabilito…

R.- E’ un fatto che accade il 16 agosto 1984, quando le macchine non avevano l’aria condizionata, e lui comunque aveva una vecchia Ford Fiesta color amaranto. Eppure da Canicattì parte per andare ad Agrigento e lì lo accoglie anche lo stupore degli agenti di polizia penitenziaria, che gli chiedono subito, quasi in maniera ironica: “Dottore, ma che fa qua lei oggi?”, in una giornata di ferie, festa e relax. E lui risponde che è giusto che il debito pagato con la giustizia, porti poi effettivamente ad una scarcerazione di un uomo che ha diritto alla sua libertà nel momento in cui finisce di pagare quella pena. Ma questa forma disponibilità e anche di fortissima umanità la troviamo veramente in tantissimi piccoli gesti, che ci vengono raccontati anche dal personale del palazzo di giustizia di allora. Livatino era l’unico magistrato che si fermava a parlare con gli impiegati, ma è anche il rispetto che manifesta anche nei confronti degli imputati, e questa sua ricerca, sempre molto attenta, della verità. Il suo essere magistrato, non per mandare in galera la gente, ma soprattutto per stabilire la verità, e stabilirla con giustizia. Diversi avvocati difensori nei processi in cui era coinvolto anche Livatino come pubblico ministero, hanno raccontato che gli mandava in tilt, perché loro, avvocati difensori chiedevano ad esempio una pena di 6 anni e Livatino come pubblico ministero chiedeva poi una pena di 5 anni e mezzo. Questo perché riteneva opportuno che in quel momento la legge si dovesse essere applicata, ma c’erano condizioni favorevoli al colpevole che comunque andavano riconosciute e quindi andavano applicate.

Infatti, il giovane magistrato diceva che la giustizia dev’essere superata dalla carità, e poi agiva concretamente dimostrando vicinanza umana ai colpevoli che aveva fatto condannare, ai detenuti e alle vittime delle guerre di mafia…

R. – Sì, c’è un episodio raccontato dai custodi dell’obitorio di Agrigento. Lui andava spesso lì per le cosiddette “ricognizioni cadaveriche”, anche per morti ammazzati nelle guerre di mafia. La vedevano per prima cosa entrare nella stanza della sala mortuaria, farsi il segno della croce e poi raccogliersi in preghiera per qualche minuto, prima di iniziare la sua attività. Ma anche quando invece va sul luogo dell’agguato insieme ad un sottufficiale dei carabinieri, e questo manifesta una certa contentezza perché, dice, “finalmente ci siamo tolti di mezzo un altro ‘nemico’” dato che era morto un altro boss mafioso ammazzato da altri mafiosi, Livatino lo rimprovera severamente e gli dice: “Di fronte alla morte chi ha fede prega, e chi non ha fede tace”. E’ la sua storia cristiana che lo porta ad avere il massimo rispetto della persona. Riesce sempre a distinguere tra reo e reato. Comprende bene che il reato è una cosa comunque da condannare, ma il reo rimane sempre una creatura di Dio che ha quindi dritti e dignità e per il quale bisogna trovare spazio anche per la comprensione e la misericordia.

In precedenti interviste, lei ha voluto sottolineare innanzitutto la straordinaria coerenza, cristiana e civile, di Rosario. Ce ne può dare un esempio?

R.- Non è un magistrato che va a messa la domenica e basta. Ma è il magistrato che conosce profondamente la Scrittura, la fa diventare il suo stile di vite, il suo punto di riferimento. Conosce gli scritti dei Padri della Chiesa, conosce i testi del magistero, conosce ed applica i documenti del Concilio Vaticano II. La sua è una fede che costruisce realmente pezzo per pezzo. Questo fa di lui veramente il cristiano credibile che si rapporta quotidianamente con il Vangelo e che fa riferimento al suo Signore in ogni istante della sua vita. Le agende sono piene di atti di lode e di ringraziamento al Signore per il momento belli che vive, ma anche nei momenti di difficoltà lo troviamo lì ad invocare sempre l’aiuto del Signore. Per questo si può parlare realmente di un magistero di Rosario Angelo Livatino, e questo magistero lui lo vive da cristiano e da buon servitore dello Stato. Non sono due momenti scissi uno dall’altro: per lui è un tutt’uno. La sua vita è fatta di testimonianza evangelica e di fedeltà alla Costituzione. Perché giustamente se uno è un buon cristiano, deve necessariamente essere un buon cittadino. Ecco perché anche l’odio e l’acredine da parte non solo della mafia, ma anche di alcuni giornalisti. Che non l’hanno visto di buon occhio perché lui gli impediva quasi di lavorare solo perché non gli passava le indiscrezioni e quindi non permetteva a certa stampa di sbattere in prima pagina il classico mostro. Ma proprio per questo è stato comunque apprezzato da tantissimi altri giornalisti e molto hanno anche deposto al processo di canonizzazione e hanno detto che ha fatto bene, perché era un difensore strenuo del segreto istruttorio. Sono tutti i dati veramente essenziali, come il fatto stesso di non voler apparire. C’è il maxi processo “Santa Barbara” del 1984, quando per la prima volta tutti i capi cosca agrigentini sono alla sbarra, grazie all’indagine condotta da Livatino, e giornalisti chiedono una foto ricordo di tutti i magistrati che in quel momento lavorano in tribunale e in procura ad Agrigento. Ma ottengono subito il diniego di Livatino che dice: “Non siamo qui per parlare e far parlare di noi, siamo qui per rendere giustizia”. E quella foto non si fece.

Come parlerebbe, in breve, di Rosario Livatino a un giovane che non conosce la sua vita e la sua testimonianza?

R.- Cercherei di fargli capire quanto sia importante la visione di Livatino del mondo e delle cose. Prima fra tutte l’importanza che lui dà a fondare la vita su dei valori e lo dice anche nelle sue conferenze: l’uomo ha bisogno di valori, ma valori che siano tali, intramontabili. Possono essere valori cristiani, legati al Vangelo, possono essere valori civili. E lui, fondando la sua vita sui valori afferma anche la sua libertà. Oggi tutti parlano di libertà, tutti parlano anche di valori, ma realtà si sta parlando di pseudolibertà e di disvalori. C’è in lui questa tensione continua a vivere la vita veramente in pienezza, che è la cosa più bella che un uomo possa fare, nella dedizione di sé agli altri, nel perseguimento del bene comune. Per arrivare al raggiungimento della propria felicità. Perché Livatino questo concetto: la vita è ricerca della felicità, ed essere felici vuol dire far felici gli altri, perché quando sono felici gli altri, sono felice anche io.

Se la Sicilia di oggi è diversa da quella di 30 anni fa, è grazie anche alla sua testimonianza credibile? La sua vita, la sua morte ora la sua beatificazione hanno già cambiato e stanno ancora cambiando i cuori dei siciliani? I vescovi nel loro messaggio per la beatificazione dicono: “Non abbastanza”…  

R.- Livatino è stato un seme, che è caduto a terra e che ha dato molti frutti, ma che ancora fa difficoltà ad entrare in determinati ambienti. Perché al di là della cultura mafiosa, c’è un sentire mafioso che permea in maniera ancora più profonda moltissime coscienze. Perché la cultura mafiosa comporta una corresponsabilità, una adesione piena ad un modo di agire e di pensare. Ma il sentire mafioso è più subdolo, perché qui c’è molto, molto diffusa la cultura del familismo. Per cui ci sono dei “valori” che in realtà non sono tali e diventano disvalori, come quello dell’amicizia, della conoscenza, della familiarità che ci fanno comportare in maniera diversa a seconda di chi abbiamo di fronte. Livatino comprende che il “sì” detto ad una persona in una determinata circostanza, può significare non un atto di benevolenza ma invece un danno alla persona, e può significare una compromissione da parte di chi quel sì lo dice. Quando un giorno va da lui un sacerdote, suo ex insegnante a chiedergli una piccola raccomandazione, Livatino non cede: sorridendo gli risponde. “Ma lei quando confessa accetta raccomandazioni?”. Lui ha questa forza di mantenersi veramente equidistante da ogni tipo di interesse, da ogni tipo di circostanze che possano qualche modo far flettere anche la sua dirittura morale. E lui era una sorta di enciclopedia vivente da tutti i punti di vista. Una persona talmente dotata, talmente straordinaria, da diventare punto di riferimento per i colleghi e punto di riferimento anche per l’amministrazione della Giustizia, qui in una terra difficile come quella di Agrigento.

Di sicuro ha cambiato però il cuore di un killer che si è pentito, grazie a lui…

R.- Certamente questo seme ha prodotto i suoi frutti negli uomini e nelle donne di buona volontà, ma pensiamo anche a quello che è stato il cammino di conversione che ha fatto uno dei quattro killer (Gaetano Puzzangaro, n.d.r.), che in quel momento è stato coinvolto in questo omicidio, non sapendo neanche chi era il soggetto da sopprimere. Lui non sapeva nulla di Rosario Livatino, ma gli fu chiesto questo favore e lui, da buon familista detto subito sì, perché si trattava di fare un favore a degli amici. Ma poi ha cominciato a conoscere la figura di Livatino, e quando io ho incontrato questo killer nel carcere di Opera, mi ha ripetuto fino all’ossessione una frase: “Se potessi tornare indietro”. Me l’ha ripetuta fino al punto tale che poi l’ho dovuto interrompere, e ho detto: “Guarda che indietro non si può tornare, però avanti puoi andare”. E guardare il risultato: questo killer ha scritto una lettera ai giovani del suo paese, Palma di Montechiaro, dove ha raccontato la sua esperienza,le sue illusioni e le sue disillusioni e soprattutto ha cercato di fare in modo che altri ragazzi non cadano nella tentazione della mafia, della criminalità organizzata, o del malaffare in genere e vivano veramente da uomini e donne liberi, che sanno realizzare anche un proprio sogno e un progetto di vita. Questo è il grande dono della redenzione: una vita donata che continua a produrre frutti, anche a tantissimi anni dalla sua morte violenta. Questa vita donata continua ad essere veramente portatrice di grandi doni, portatrice di speranza e di libertà, soprattutto.

Mantovano: esempio di professionalità e dirittura morale

Di Rosario Livatino magistrato, prima sostituto procuratore, dal 1978 al 1989, poi giudice a latere, e della sua testimonianza per i servitori della giustizia di oggi, ci parla Alfredo Mantovano, giudice della Corte di Cassazione e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino. Nato nel 2015, è composto da un gruppo di giuristi, (magistrati, avvocati, docenti universitari, notai) che sull’esempio del giudice agrigentino, studia temi riguardanti soprattutto il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limite della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale.

Ascolta l’intervista ad Alfredo Mantovano

R – Se non fosse stato ucciso, Rosario Livatino sarebbe ancora in servizio, il che significa che la sua figura non è lontana nel tempo. E’ una figura che può dire molto al magistrato di oggi, soprattutto di fronte ai pessimi esempi che vengono dal mondo della magistratura: grandissima professionalità, dirittura morale, conoscenza attenta delle norme e degli orientamenti giurisprudenziali, sforzo per cogliere la verità del fatto sottoposto al suo giudizio e grande dedizione al lavoro. Mi paiono doti esemplari per il magistrato di ogni tempo, ma soprattutto per il magistrato del nostro tempo.

In un recente libro del collega Toni Mira è uscito questo intervento inedito di Livatino al funerale del magistrato Cucchiara, nel quale il giudice diceva: “I magistrati possono dividersi in due categorie: quelli che dicono: ‘la Legge non dice che io non pos­so farlo e allora lo faccio’, e quelli che invece dicono: ‘la Legge non dice che io lo posso fare e quindi non lo faccio’. Tra queste due categorie c’è la differenza che corre tra l’esse­re semplicemente operatori del diritto e l’essere Operatori di Giustizia”. Quanto queste parole e la testimonianza di vita di Livatino, sono da esempio e da monito per i magistrati di oggi?

R.- Oggi si è diffusa ed era già in qualche modo iniziata all’epoca di Livatino una prassi perversa all’interno delle varie magistrature, cioè quella non di applicare secondo scienza e coscienza la norma al caso di specie sottoposto al giudizio, ma quello di inventare la norma, immaginando discipline oltre il dettato normativo, in certi casi oltre il dettato costituzionale, facendo una sorta di shopping anche in altri ordinamenti, o interpretando come regola sovraordinata la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Questo ha portato a decisioni sconcertanti, soprattutto sui cosiddetti nuovi diritti e non a caso Papa Francesco, ricordando Livatino nel novembre del 2019, lo ha segnalato come esempio anche di giudice che non inventa nuovi diritti, nuovi istituti, ma è strettamente ancorato alla realtà concreta.

Però un magistrato che vuol essere operatore di giustizia, deve saper andare al di là dell’applicazione stretta della legge e riuscire anche essere anche umano…

R.- Questo senza ombra di dubbio. Nelle due conferenze, gli unici due interventi pubblici che Livatino ha fatto nella sua vita, a parte il lavoro giudiziario, in particolare in quella dedicata al rapporto tra fede e diritto lui ricorda che se la bussola, l’orientamento del magistrato deve realizzarsi nell’ applicazione della legge, poi la ragione della legge, la sua anima va rintracciata in quella legge naturale che si chiama così perché è iscritta nella natura dell’uomo e che deve fare da riferimento ultimo. Diverso è quello che accade, purtroppo in più di una circostanza, oggi più che nel passato, e cioè di cercare norme assolutamente nuove sulla base dell’ideologia e della moda del momento.

Sempre il giovane magistrato diceva che la giustizia deve essere superata dalla carità e poi agiva concretamente dimostrando vigilanza umana ai colpevoli che aveva fatto condannare, ai detenuti e alle vittime delle guerre di mafia…

R.- La straordinarietà dell’ordinaria vita di Livatino è la sua capacità di coniugare il rigore nell’applicazione della norma, senza sconti neanche per il mafioso che era suo vicino di casa, con non sono l’umanità, ma il rispetto rigoroso delle tutele difensive, anche per il criminale peggiore.

Quindi è più corretto definirlo “il giudice giusto”, come fa nel titolo del suo libro il collega Toni Mira, piuttosto che “il giudice ragazzino”?

R.- Tutto poteva essere Rosario Livatino al momento della morte, fuorchè “giudice ragazzino”, perché aveva già 12 anni di funzione giudiziaria alle spalle ed era un po’ il saggio dell’ufficio, quello a cui tutti ricorrevano quando avevano necessità di un suggerimento, di un consiglio, di un conforto. Esattamente il contrario di un ragazzino.

Dal punto di vista delle indagini Livatino è stato uno dei primi ad attuare, con Falcone e Borsellino, la confisca dei beni ai mafiosi. Misura straordinariamente efficace contro le mafie…

R.- Non solo l’ha praticata intensivamente, ma l’ha praticata in un momento in cui la normativa sul punto era molto scarna e quel tipo di misure venivano considerate più misure di polizia che misure giudiziarie. Lui ha dato un tratto di rispetto delle garanzie e al tempo stesso di efficacia nel colpire il patrimonio dei mafiosi, con provvedimenti che reggevano in tutti i gradi di giudizio. Questa è stata una delle ragioni per cui la Stidda ha deciso di ucciderlo, perché era il personaggio dal loro punto di vista più pericoloso per la loro attività criminale.

Forse a questa beatificazione non si sarebbe mai arrivati senza il coraggio di Pietro Ivano Nava, il testimone che ha riconosciuto i killer e che per questo ha perso tutto: il nome, la famiglia, il lavoro. Eppure lo rifarebbe. Anche questa è una testimonianza da ricordare oggi…

R.- Nava è stato, diciamo, il primo effetto positivo derivante dal sacrificio di Livatino. In una terra in quel momento, oggi molto è cambiato, fortemente permeata dall’omertà, ci voleva una persona che veniva da fuori per riferire subito ciò che aveva visto e questa testimonianza è stata decisiva per avviare il giudizio, e probabilmente senza il primo giudizio, il cui chiodo era questa testimonianza, non ci sarebbero stati due successivi, seguiti poi dalla collaborazione di uno dei killer e di uno dei mandanti. Purtroppo Nava ha scontato l’assenza in quel momento di una legislazione, non solo sui collaboratori giustizia, quale lui non era, ma anche sui testimoni di giustizia. Per cui ha pagato un prezzo enorme per questo suo dovere civico, che è diventato eroismo.

Nel Centro Studi Livatino, come cercate di portare avanti nell’oggi il pensiero è l’azione del giudice nel campo del diritto e della giustizia?

R.- Intanto sviluppando alle tematiche di oggi quei principi da lui così ben espressi nelle sue due conferenze, sia sul collegamento stretto che esiste tra la legge dello Stato e legge naturale e sia sulla necessità del rigore anzitutto etico del magistrato e del giurista in generale, che non è un lavoratore come tutti gli altri, perché le sue decisioni incidono profondamente nella carne e nel sangue delle persone. Avere questo riferimento significa avere oltre che un protettore in cielo che oggi è anche riconosciuto tale, anche un esempio non accademico, non retorico, ma molto concreto per l’attività quotidiana.