Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
È un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non cadervi dentro, rispose Kafka, abbassando il capo, all’amico Janouch Gustav quando gli chiese chi fosse Cristo. È un mistero luminoso che si può eludere se ci si costringe a non vedere, che non si può decifrare ricorrendo a codici razionali o a pure astrazioni filosofiche. I letterati, poeti e scrittori che hanno cercato di definire e decifrare Cristo, che ne hanno indagato natura e mistero, sono di numero sterminato e tra questi anche scettici o non credenti.
Ancor di più di fronte alla nascita del Salvatore, a quella che Simeone chiama segno di contraddizione (Lc 2,34) e san John Henry Newman definisce «L’idea centrale del cristianesimo», lo smarrimento si amplifica e scioglie tutti, anche il più irriducibile, in un sentimento disarmato che può essere chiamato con un solo nome: amore.
Bonhoeffer: la cella di una prigione spalancata sull’immenso
Il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) anziché rimanere in esilio, al sicuro, scelse di tornare in Germania e restare accanto alla «Chiesa confessante». Fu accusato di cospirazione contro il regime nazista e arrestato dalla Gestapo.
Il 17 dicembre 1943, dal carcere berlinese di Tegel, Bonhoeffer scrisse una lettera per Natale ai genitori. La situazione storica allora era ben diversa da quella che stiamo vivendo ma le parole che seguono si rivelano quanto mai utili a farci riflettere sulla nostra condizione, in qualche modo rinchiusi e un po’ più soli, nel tempo natalizio, a causa dei provvedimenti utili a contrastare la diffusione del covid.
«Non dovete pensare che io mi lasci abbattere da questo Natale in solitudine. […] È in tempi come questi che si dimostra veramente che cosa significhi possedere un passato e una eredità interiore che non dipendono dal mutare dei tempi e degli eventi. La consapevolezza di essere sorretti da una tradizione spirituale che si estende nei secoli dà una salda sensazione di sicurezza davanti a qualsiasi transitoria difficoltà. Credo che chi sa di possedere siffatte riserve di forza non ha bisogno di vergognarsi nemmeno dei sentimenti più teneri, che peraltro a mio giudizio sono propri degli uomini migliori e più nobili, quando siano suscitati dal ricordo di un passato bello e ricco. Chi si tiene saldo a quei valori che mai nessun uomo può carpirgli non sarà sconfitto.
Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti in questa casa celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di chiunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza d’aiuto e colpa hanno agli occhi di Dio un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio si volge proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distogliersi; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annuncio. Credendo questo, sa di essere inserito nella comunità dei cristiani che supera qualsiasi limite spaziale e temporale e le mura della prigione perdono la loro importanza. […] Sarà dappertutto un Natale molto silenzioso, e i bambini in futuro ci ripenseranno a lungo. Ma forse proprio per questo qualcuno si accorgerà per la prima volta di che cosa sia in realtà il Natale».
Sartre di fronte al mistero della Maternità di Maria
Anche Jean-Paul Sartre (1905-1980), esponente di spicco dell’esistenzialismo ateo, trascorse un Natale in prigione, nel Lager di Treviri, in Germania. Scrisse in quell’occasione, su richiesta di due sacerdoti, compagni di prigionia, un’opera teatrale che fu messa in scena la notte della Vigilia del 1940: Bariona o il figlio del tuono. Questo «racconto di Natale per cristiani e non credenti» doveva servire a far dimenticare le sofferenze dei detenuti e a dare una speranza. Sartre si ispirò al Vangelo di Luca e di Matteo.
Il protagonista, Bariona, si trova ad un certo punto di fronte al Bambino e qui le parole di Sartre diventano sorprendenti. In realtà, tra le pieghe dell’opera si nasconde un significato politico che i nazisti non colsero, scambiandola per una innocente favola natalizia, ma ciò non toglie valore di profonda spiritualità alle sue parole. Ci fanno comprendere come di fronte al mistero della Maternità di Maria e di un bambino fatto Dio non si possa restare impassibili.
Queste parole appaiono struggenti e illuminanti insieme. Parlano del mistero provato da ogni madre di fronte alla propria maternità e parlano allo stesso tempo del mistero della Maternità divina, di Maria che si trova tra le braccia a cullare Dio.
«La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo volto è uno stupore ansioso che non è comparso una volta soltanto su un viso umano. Perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne, e sangue delle sue viscere. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrirà il seno, e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Qualche volta la tentazione è così forte da farle dimenticare che è Dio. Lo stringe fra le braccia e dice: “Bambino mio”.
Ma in altri momenti, rimane interdetta e pensa: lì c’è Dio, e viene presa da un religioso orrore per questo Dio muto, per questo bambino che incute timore. Tutte le madri in qualche momento si sono arrestate così di fronte a quel frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino, sentendosi in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che è abitata da pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato strappato più crudelmente e più rapidamente di questo a sua madre, perché è Dio e supera in tutti i modi ciò che lei può immaginare.
Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia”.
Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere fra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che ride. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino-Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride. Questo è tutto su Gesù e sulla Vergine Maria».