In moto la macchina dei soccorsi dopo le alluvioni in Cirenaica, ma c’è preoccupazione per la situazione sanitaria a Derna e sono diverse le difficoltà che rischiano di minare il coordinamento e l’efficacia degli aiuti internazionali. Il Paese mostra comunque segnali di unità nell’affrontare la crisi, spiega Federico Ponti della ong Cefa
Leone Spallino – Città del Vaticano
A più di una settimana dalle inondazioni che hanno devastato la Cirenaica, nell’est della Libia, c’è ancora incertezza sull’effettivo numero di decessi e persone non rintracciate e gli enormi numeri delle prime stime – intorno a 20mila fra morti e dispersi – potrebbero aumentare. I giganteschi volumi d’acqua causati dalle piogge del ciclone sub-tropicale Daniel hanno distrutto due dighe proprio nelle vicinanze di Derna, centro urbano che ha registrato la distruzione di oltre la metà degli edifici. La situazione in città, che è rimasta a lungo tagliata fuori dal resto del Paese, appare drammatica: il mancato recupero di molte salme e la totale distruzione delle infrastrutture idriche ha alzato il livello di allarme per possibili epidemie. I soccorritori hanno come principali obiettivi, in questa fase d’emergenza, la fornitura di acqua potabile alla popolazione e la tumulazione dei deceduti, per scongiurare che la città semidistrutta possa anche diventare il centro di una catastrofe sanitaria. Ma se Derna rappresenta il più grande centro urbano investito dalla furia di Daniel, anche altre aree periferiche e rurali sono state colpite ed i soccorsi affrontano la difficoltà di raggiungere materialmente ogni località. A questi problemi se ne aggiungono anche altri di ordini burocratico, almeno per le organizzazioni estere: ottenere dei visti per entrare nel Paese è infatti molto complesso e questo rallenta le operazioni di soccorso.
La solidarietà internazionale
“Siamo ancora in una fase di diagnostica dei veri bisogni sul campo”, spiega a Radio Vaticana Federico Ponti, membro del Cefa (Commissione Europea per la Formazione e l’Agricoltura), una ong attiva in Libia già dal 2017. “Le organizzazioni di salvataggio e prima risposta sono già operative, ma adesso si tratta di fornire beni di prima necessità di cui c’è un forte bisogno: beni alimentari e sanitari verso le infrastrutture operative che sono ancora in funzione”, sottolinea Ponti. “Ci sono diverse difficoltà nell’operare in Libia, al netto del non funzionamento delle infrastrutture: è un Paese dove le dinamiche di potere e i suoi cambiamenti incidono anche sul lavoro delle organizzazioni umanitarie. In questa emergenza – prosegue – ci troviamo anche in difficoltà strutturali non solo logistiche, ma che hanno anche a che fare, per esempio, con l’ottenimento dei visti di accesso nel Paese. In questo momento io stesso, infatti, mi trovo ancora in Tunisia e sto aspettando di poter entrare in Libia”.
La catastrofe che unisce
C’è chi ha parlato di un disastro così immane da aver sedato le divisioni che sono presenti in Libia, accantonante nelle drammatiche ore dei soccorsi e degli aiuti. Ponti sembra confermare questa versione: “Dobbiamo ancora aspettare e sarà il medio termine che ci darà una risposta, ma sembra proprio che le divisioni nel Paese non esistano per quanto riguarda l’aiuto, l’assistenza e il soccorso in questa tragedia. Sono già alcuni mesi che questa integrazione fra est e ovest nel coordinamento degli aiuti umanitari va avanti e con gli eventi di questa settimana questo processo sembra intensificarsi ulteriormente. C’è una grande apertura da parte di Tripoli che sta fornendo tutto il supporto disponibile al governo di Benghazi.” Insomma, anche i due governi rivali sembrano riconoscere la gravità della tragedia e appaiono agire di comune accordo nel far fronte alla drammatica situazione degli ultimi giorni, al punto che ci si interroga se questa possa essere una speranza per il futuro del Paese. “Un movimento di solidarietà tra i due fronti, che pur restano in contrasto, si sta verificando. Questo fa sperare che, in futuro, questo processo – conclude Ponti – possa continuare ulteriormente”.