Giancarlo La Vella – Città del Vaticano
Un euro non vale più un dollaro. Sono venti anni che l’euro non veniva apprezzato sotto il livello di uno a uno con il dollaro statunitense, moneta fondamentale negli scambi internazionali. Diverse, secondo gli analisti economici, le motivazioni di questo calo. Da una parte la guerra in Ucraina ha contribuito ad elevare i prezzi del comparto energetico, fenomeno, però iniziato già mesi prima, dall’altra ci sono le misure della Banca centrale americana, la Federal Reserve, che ha alzato i tassi di interesse per cercare di fermare il fenomeno inflattivo.
Non drammatizzare
Il rapporto tra le monete forti mondiali è un fenomeno complesso. Rispetto a 20 anni fa la situazione globale è sensibilmente mutata e ci sono altre divise che si sono apprezzate nel panorama economico commerciale, per cui il cambio euro-dollaro non è più così fondamentale. Per l’economista Riccardo Moro, docente all’Università statale di Milano, bisogna operare a livello macroeconomico e microeconomico con oculatezza. Da parte degli stati, diversificare la scelta delle fonti energetiche; per le famiglie, operare delle scelte diverse nelle spese quotidiane.
Professor Moro, l’euro scende a livelli di 20 anni fa, ma il mondo è cambiato in due decenni. Che differenze possiamo notare?
Ci sono dei ruoli più rilevanti giocati in termini economici globali e anche geopolitici da Paesi del Sud del mondo. Certamente un ruolo sempre maggiore è quello messo in atto da altre potenze economiche. Tutto questo rende il rapporto dollaro-euro un po’ meno fondamentale rispetto a quello che poteva essere venti anni fa. Detto questo la relazione tra le due monete rimane importante e però va collocata in una prospettiva in cui nello scacchiere non ci sono solo queste due valute.
Il calo dell’euro è legato solo alla crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina o anche a particolari politiche monetarie?
Fondamentalmente il cambio euro-dollaro è influenzato dalle politiche monetarie che sono state necessarie per combattere l’inflazione, fenomeno che precede la guerra. Abbiamo avuto una forte inflazione da crescita della domanda negli Stati Uniti, perché la ripresa, in questo Paese, è stata più rapida e ha preceduto di qualche mese la ripresa post pandemia europea. Questo ha portato la Federal Reserve ad alzare i tassi di interesse un po’ più rapidamente di quanto ha fatto l’Unione Europea per cercare di contenere la domanda e ridurre così l’inflazione. Nell’Unione Europea l’inflazione è stata più o meno degli stessi livelli americani, ma le componenti di quel fenomeno, più che a un aumento della domanda interna, sono effettivamente causate dall’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche e questo è un fenomeno che ha preceduto comunque la crisi ucraina, ma che è stato fortemente amplificato dalla guerra. Allora l’Unione Europea tende a non aumentare i tassi di interesse con la stessa intensità degli Stati Uniti per evitare di strozzare una domanda della quale invece abbiamo ancora bisogno, perché l’inflazione, ripeto, non è dovuta ad una crescita della domanda, ma è dovuta all’aumento dei prezzi energetici. Ecco che a questo punto diventa più interessante investire negli Stati Uniti, perché i tassi di interesse sono più alti e noi abbiamo un trasferimento di risorse nei mercati finanziari che vanno a vendere euro per acquistare dollari.
Un euro più debole porta con sé anche aspetti positivi?
In realtà sì, perché vuol dire che i prodotti europei sul mercato internazionale diventano più convenienti. Questo significa più opportunità per le esportazioni europee, più opportunità derivanti dal turismo estero, perché il turismo è una delle voci dell’esportazione, cioè cittadini stranieri vengono a investire con loro valuta in Europa, trovano prezzi convenienti e lo fanno più volentieri leggeri e arrivano in quantità maggiore. A fronte di questo, evidentemente, costano di più le importazioni.
È immaginabile che questo andamento a ribasso possa proseguire ancora per diverso tempo nel breve-medio periodo?
È molto difficile fare previsioni. La vicenda della guerra in Ucraina ha un ruolo fondamentale nella definizione dei prezzi energetici, soprattutto di alcune componenti dei prezzi energetici, certamente quelli del gas, che oggi per l’Europa è una materia prima rilevante. Credo che abbiamo bisogno di diversificare le fonti, non solo andando a scegliere produttori diversi, ma anche continuando, in modo ancora più forte di quanto non sia stato fatto sinora, l’approvvigionamento da energie da fonti rinnovabili. Non è solo una questione ambientale, che è fondamentale ovviamente, ma è anche una questione di non dipendenza da singoli produttori o da singoli fattori, perché, se si è monodipendenti, evidentemente quando vi è un problema da quella fonte, che sia un problema di natura tecnica, che sia un problema di natura politica, come quello generato dalla guerra, le conseguenze sono molto più difficili da gestire.
Quali ricadute sulla microeconomia in questo momento, cioè sulla vita delle famiglie?
Ovviamente l’inflazione sta pesando sulla vita delle famiglie, ma credo sia anche importante comunicare le cose in modo adeguato. Nel momento in cui si racconta il cambio sotto la parità tra euro e dollaro come un elemento negativo, questo è preoccupante. Così stiamo introducendo nelle aspettative delle persone degli elementi di pessimismo che poi vengono amplificati nella dinamica economica, perché, quando le persone pensano che le cose vanno male, riducono le loro scelte d’acquisto, avranno comportamenti maggiormente prudenziali dal punto di vista degli investimenti e tutto questo rallenta l’economia. Noi invece abbiamo bisogno di introdurre nell’economia elementi di ottimismo, certamente ottimismo non irresponsabile, perché le opportunità, dove ci sono, vengano colte: ad esempio, facciamo attenzione a non consumare energia inutilmente, possiamo invece investire e spendere in altri settori, in cose che permettono di far circolare opportunità e dare lavoro, occupazione e prospettive.