Giancarlo La Vella – Città del Vaticano
Le parole di cordialità e affetto rivolte dal Papa al popolo etiope in occasione della festa del Capodanno sono intrise di partecipata preoccupazione alle sofferenze che la gente del Paese africano sta vivendo a causa del conflitto nella regione del Tigray e della conseguente situazione umanitaria da esso causata. Francesco non smette di esortare alla fraternità, alla solidarietà ed alla pace. Il missionario comboniano, padre Filippo Ivardi, riferisce nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News di come le parole del Papa abbiano fatto da sollievo in una situazione che si aggrava di giorno in giorno e di fronte alla quale la comunità internazionale ha sinora fatto molto poco.
Padre Ivardi come è stato accolto in Etiopia il saluto di Papa Francesco rivolto al Paese africano nell’ultima Udienza Generale?
Il pensiero del Papa è stato accolto con grande favore da tante comunità anche cristiane e da chi è attento a questi temi, da chi vuole bene all’Africa. A livello internazionale vedo che ci si sta muovendo molto poco. Oggi è una giornata molto particolare, l’11 settembre tutti ricordiamo gli attentati negli Usa, ma in Etiopia si celebra il Capodanno etiope, che generalmente coincide anche con la fine della stagione delle piogge. Questo rischia di far aumentare la possibilità di spostamenti e quindi può anche favorire l’intensificarsi di un conflitto che negli ultimi tempi è molto cambiato, nel senso che si sta estendendo ad altre regioni. Non si combatte più solo nella zona del Tigray, dove gli scontri continuano, e dove il Fronte di Liberazione Popolare Del Tigray (Tplf) ha conquistato quasi tutto il territorio. Un’avanzata questa avvenuta nonostante le forze federali etiopi abbiano dichiarato una settimana fa di avere comunque eliminato oltre 5 mila militari tigrini. Ma quello che preoccupa maggiormente è che il conflitto si sta estendendo. I combattimenti stanno coinvolgendo anche la regione degli Amara, confinante con il Tigray, e dove le forze locali sono alleate dell’esercito federale etiope.
Il conflitto, iniziato a novembre scorso, ha ad oggi un bilancio grave?
Sì, grave, anzi gravissimo. Oltre alle migliaia di morti, si parla di oltre 900 mila persone in situazioni di carestia; poi abbiamo 5 milioni di persone nel Tigray che hanno bisogno di aiuti immediati e adesso anche nella regione di Amara si sta sentendo l’emergenza umanitaria; abbiamo oltre 90 mila rifugiati in Sudan. Quindi stiamo parlando di una situazione assolutamente allarmante, dove anche l’aiuto umanitario è stato spesso bloccato e questo stop agli aiuti viene utilizzato come un’arma da guerra. Poi ci sono testimonianze di indicibili violenze subite dalle donne, anche queste utilizzate come arma di guerra.
A proposito del rischio di estensione di questo conflitto, c’è la possibilità che si allarghi ad altri Paesi?
Questo sì, per esempio l’Eritrea è già stata coinvolta con un impiego militare e di armi molto molto ingente, nonostante i continui appelli fatti da Stati Uniti e comunità internazionale a ritirarsi. Ma c’è la possibilità che la guerra si estenda anche al confine con il Sudan, dove del resto alcuni combattimenti ci sono stati nella zona contesa tra Etiopia e Sudan, tra l’altro una zona fertilissima su cui ambedue i Paesi da anni rivendicano la sovranità. Ma il rischio è anche che la guerra possa estendersi nella zona vicino alla Somalia. Vicino c’è anche Gibuti ed è importante il controllo della strada che porta al porto di Gibuti da Addis Abeba, unico sfogo sul mare per l’Etiopia. Quindi un collegamento strategico.
Padre ci può dare un quadro dell’Etiopia, in particolare la zona tigrina prima del conflitto?
Il Tigray è stata una regione che comunque ha avuto negli ultimi anni un grosso sviluppo e non solo agricolo. Si tratta della parte più industrializzata del Paese, dovuto anche al fatto che i tigrini, ricordiamolo, sono stati al governo per quasi 30 anni e quindi hanno sfruttato questa situazione in cui avevano sicuramente in mano le redini dell’Etiopia. Insomma, non era certo un’area delle più disastrate del Paese, anche se sul suo territorio ospitava quattro campi di rifugiati per profughi eritrei e quindi doveva fare i conti sicuramente anche con una serie di aiuti, di assistenza a queste persone.