L’esperienza di accoglienza di una suora in un centro per migranti e senza dimora

Vatican News

di Maria Giovanna Titone csj

Coordinare la gestione di un dormitorio parrocchiale comporta toccare con mano tante storie. Le mie precedenti esperienze di volontariato con le persone senza fissa dimora probabilmente si erano focalizzate più sul trovare “strategie” per avvicinarli e su quel poco che potevo dare loro: qualcosa da mangiare, da bere e qualche stentata parola di conforto e di incoraggiamento, insieme ad informazioni utili o presunte tali. La gestione di una struttura di bassa soglia, invece, pone ben altre sfide. Si tratta di mettere da parte anche le proprie migliori intenzioni per fare spazio alle vite di coloro che ospitiamo e rimanere annunciatori della speranza cristiana pur nell’impotenza a cui tante volte siamo esposti.

Un grande bisogno di accoglienza

Il nostro dormitorio “Buon Samaritano”, che si trova nella parrocchia di San Rocco a Ravenna, affronta la sfida quotidiana di relazionarsi con la rassegnazione e la perdita di senso. Colpisce molto la richiesta continua di accoglienza da parte di giovani immigrati, che si trovano nel limbo dell’attesa dei documenti e dell’inserimento nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinari) sempre più affollati. Ravenna non è nella rotta dei flussi di migrazione, ma si è sparsa la voce che la Questura faccia presto con i documenti, informazione inesatta, e molti seguono questa via per arrivare prima all’obiettivo di essere regolari in Italia, ma si trovano ad affrontare lunghe attese, in media dai 2 agli 8 mesi, senza lavoro, alloggio e soldi, in altre parole, per strada. Altrettanto numerosa è la richiesta da parte di persone che soffrono di disturbi mentali e di dipendenze che non trovano un’adeguata rete di tutela né familiare né sanitaria, e finiscono così a entrare e uscire da dormitori come il nostro.

Le richieste superano le nostre possibilità

La nostra piccola struttura, che nell’era Covid può ospitare fino a 15 uomini e 3 donne, si trova cosi ad affrontare sfide molto più grandi di sé. Spesso mi sono trovata ad interrogarmi su cosa significhi vivere l’annuncio del Vangelo all’interno di questo dormitorio, in cui occorre risolutezza, attenzione al particolare e visione di insieme, cura delle relazioni con le istituzioni pubbliche, conoscenza del territorio e delle sue risorse, consapevolezza dei propri limiti personali e dell’accoglienza stessa, senza farsi prendere da “manie da salvatori” né dallo scoraggiamento. Ci troviamo, infatti, a dover fare anche scelte difficili, come quelle di allontanare alcune persone davanti ad atti di aggressione o gravi violazioni del regolamento interno o a dire dei “no” all’accoglienza, riconoscendo di non essere all’altezza di affrontare i disagi che i nostri ospiti vivono.

Un letto e una doccia non bastano

E in effetti non compete a noi – piccola struttura di accoglienza, fondata ormai da più di 20 anni da don Ugo Salvatori, che è stato presbitero della diocesi di Ravenna-Cervia, e portata avanti da volontari – farci carico da soli del dramma di queste persone. Le amministrazioni con cui proviamo a fare rete, spesso finiscono con l’appoggiarsi a realtà come la nostra per rispondere in via emergenziale a situazioni che dovrebbero essere riconosciute come diritti. È noto che manchino le risorse economiche e il personale per seguire i casi; mancano le strutture adeguate per accogliere persone con necessità sanitarie e abitative. Sono troppo lunghi e incerti i tempi della burocrazia per regolarizzare la presenza degli immigrati nel nostro Paese… Proprio per tutte queste ragioni non basta dare un letto e una doccia, sebbene questo per le persone che accogliamo sia già quanto è loro necessario per togliersi dalla strada e dalla disperazione.

Ci vuole una politica adeguata 

Occorre essere voce di coloro che per la nostra società occidentale sono senza voce, richiamando l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica affinché il ricordo degli ultimi non sia solo uno slogan da campagna elettorale, ma una esigenza di civiltà, prima ancora che di carità. Come cristiani non possiamo accontentarci di una politica che usa all’occorrenza i simboli religiosi, ma dobbiamo essere esigenti e chiedere che i programmi e le conseguenti scelte amministrative rispondano ai bisogni reali delle persone, e soprattutto dei più deboli.

Non strumentalizzare gli ultimi

Carità e speranza cristiana, dal punto di osservazione che mi offre questo piccolo dormitorio parrocchiale, non possono dirsi soddisfatte dal poco che possiamo fare, occorre una coscienza attiva e critica che senta l’imperativo di promuovere la giustizia sociale e si impegni, con scelte concrete, a chiedere che gli ultimi non siano strumentalizzati per poi essere ancora dimenticati. Come Chiesa dobbiamo pretendere che i nostri valori fondanti non siano richiamati per creare divisioni tra coloro che possono o non possono accedere ai sacramenti, ma siano coerentemente realizzati in scelte politiche e sociali che promuovano una società in cui ogni donna e ogni uomo siano riconosciuti nella dignità di persona.

Dare risposte reali non ideologiche

Come ha sottolineato il cardinale Matteo Zuppi, presidente della CEI, nel suo ringraziamento all’uscente presidente del Consiglio Draghi, “dobbiamo pensare alla sofferenza delle persone e garantire risposte serie, non ideologiche o ingannevoli, che indichino anche, se necessario, sacrifici, ma diano sicurezza e motivi di speranza”. “Il fondamentale confronto politico – aveva proseguito il cardinale Zuppi – non deve mancare di rispetto e deve essere improntato alla conoscenza dei problemi, a visioni comuni senza furbizie, con passione per la cosa pubblica e senza agonismi approssimativi che tendono solo a piccoli posizionamenti personalistici e non a risolvere le questioni”.