Cecilia Seppia – Città del Vaticano
Ecumenismo e dialogo interreligioso, due pilastri nel Pontificato di Papa Francesco che non perde occasione per rilanciare ai leader cristiani e di altre confessioni, l’impegno ad agire su queste direttrici. Agire, ma anche testimoniare insieme e parlare ad una sola voce di quelle grandi sfide che l’umanità, ulteriormente ferita dalla pandemia, si trova ad affrontare: ovvero la solidarietà, la pace, l’ambiente, la giustizia. Tutte tematiche contenute nello storico documento sulla Fratellanza Umana, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Al-Tayyeb, faro e modello per il cammino di incontro tra religioni differenti. Ma più delle parole a volte è necessario ascoltare il silenzio, ossimoro potente e difficile da realizzare nella pratica, che come spiega monsignor Samuele Sangalli, presidente della Fondazione Sinderesi e officiale della Congregazione per i vescovi, autore del volume “Il silenzio di Dio come alterità e compassione”, porta frutti insperati.
Monsignor Sangalli, lei approfondisce nel volume il tema del “silenzio di Dio” in una chiave specifica, come dichiarato nel titolo, quella dell’alterità e della compassione. Perché questa linea di indagine?
In realtà il titolo è già un riassunto degli esiti di questa indagine. Perché ho provato a guardare come gli autori, che poi abbiamo scelto, parlano e vivono il silenzio di Dio. L’itinerario di fede che le tre proposte esaminate propongono, possiamo in qualche modo esprimerlo attraverso la logica polare di Romano Guardini, nota a tutti perché più volte citata da Papa Francesco. Le polarità che si oppongono, spesso tenute in tensione e non risolte, rivelano la complessità della realtà, e così è per il silenzio di Dio. Alterità e compassione vuol dire che il silenzio di Dio da una parte ci presenta Dio veramente come un qualcosa di totalmente altro, non si trova, dov’è? E’ inaspettato. Molto spesso il silenzio di Dio ci capita soprattutto nei momenti più drammatici della vita personale o sociale: uno l’abbiamo appena sperimentato con la pandemia e quindi sembra che Dio sia totalmente lontano, totalmente altro, al punto tale che uno dei ‘cavalli di battaglia’ dell’ateismo è anche questo: il dolore del mondo, il silenzio di Dio. Ecco in realtà l’uomo di fede per lo meno nei tre itinerari che noi incontriamo in questo testo, ci fanno capire che proprio questa alterità e questa lontananza sono un invito perché noi entriamo dentro in una logica di consegna di abbandono, di fede nuda, totale, completa che sperimenta su di sé la compassione di Dio. Più noi ci abbandoniamo a Lui, più noi ci consegniamo senza remore, senza barriere, senza pretese a Lui, più viviamo e sperimentiamo la Sua compassione. Questo è l’insegnamento di Jalâl âl Dîn Rûmî, di André Neher, e Santa Teresa di Lisieux che sono tre grandi esponenti, di tre religioni diverse e dei tre grandi monoteismi, unificati da questa strada, da questa sigla che fa diventare il silenzio di Dio come una via privilegiata, particolare alla fede.
Quindi c’è bisogno in qualche modo di ascoltare il silenzio. Questo ossimoro potente e difficile da realizzare nella pratica?
Sì è così. In particolare gli scritti di Rûmî, questo mistico islamico del XIII secolo, citano sempre questa sūra del Corano, molto bella, in cui si dice: “io, se tu stai attento, sono più vicino di quanto tu credi! Senti il battito della tua giugulare. Ecco io sono più vicino a te del battito della tua giugulare”, quindi il silenzio di Dio è quella strada dove l’uomo, uscendo completamente dalle distrazioni, dai rumori, si trova davanti al mistero dell’Eterno. Un mistero che domanda però una totale consegna da parte nostra.
Per dare corpo alla sua riflessione, più che una trattazione sistematica lei ha scelto di sondare i cammini interiori di tre grandi autori: Jalâl âl Dîn Rûmî, un mistico persiano del 1200, André Neher, teologo e filosofo israeliano del Novecento, e Santa Teresa di Lisieux. Una scelta che contempla la necessità di fare spazio alla testimonianza…
Sì e le dico anche il perché. Anzitutto oggi sembra che in Occidente stiamo andando verso una progressiva perdita del religioso; la secolarizzazione per qualcuno significa la scomparsa del religioso dalla nostra vita, in realtà se guardiamo in profondità, non è così! Piuttosto scompaiono le vie tradizionali istituzionali del religioso, ma questo aspetto resta dentro le persone. Comunque resta il gran desiderio il grande anelito al mistero e alle grandi domande della vita. Ora questa domanda da parte delle fedi, delle grandi tradizioni religiose, presume una risposta, che l’uomo di oggi non accetta tanto in percorsi dogmatici o intellettuali, quanto piuttosto nella testimonianza di chi crede. Ecco quindi la scelta di non dare luogo a percorsi di teologia sistematica, ma di teologia spirituale guardando il vissuto dei credenti.
Ma perché ha voluto concentrarsi su tre religioni differenti?
Anzitutto perché questa è una sfida che non riguarda soltanto il cristianesimo, ma il monoteismo come tale, secondo, perché come ci ha insegnato anche Papa Francesco, ad esempio nel suo bellissimo discorso al Cairo quando parla di ‘policromia delle religioni’, ma un po’ in tutto il suo magistero, raccogliendo l’eredità del Concilio, ci dice che l’ascolto reciproco delle religioni può diventare una forza per illuminare le problematiche che circondano l’uomo, come stiamo vedendo in questi giorni in cui si stanno svolgendo incontri interreligiosi in concomitanza con la Conferenza sul clima, ma anche nei confronti delle dei cammini spirituali. Ecco quindi sentirsi, ascoltarsi reciprocamente, nei propri cammini spirituali arricchisce l’uno e l’altro. Quindi nulla di sincretistico in tutto ciò, quanto piuttosto la voglia di condividere ciò che sta al cuore dell’esperienza di fede di ciascuno di noi, perché questa condivisione davvero diventa un arricchimento reciproco.
Ci può dare un’idea del pensiero di questi autori su cui ha orientato la sua indagine?
Rûmî, con tutto questa grande tradizione Mistica dei sufi, parla del silenzio di Dio come un invito a ribaltare il punto di vista. Dio in realtà non è lontano insegna Rumi, è più vicino di quanto tu creda, il problema sei tu che devi uscire dallo stordimento delle cose, dallo stordimento e delle voci per ascoltare in profondità e cogliere dunque la presenza di Dio. E se tu ascolti la voce di Dio che è più vicina di quanto tu creda, tu ascolterai la sua voce d’amore, tenerissimo. André Neher, che è scelto come rappresentante della della tradizione ebraica, ciò che colpisce nel suo itinerario spirituale è vedere come il silenzio di Dio è quel luogo dove, anche proprio passando attraverso la tragedia dell’Olocausto, di un dolore terribile come è stato quello dell’abbandono subito dal popolo ebraico nella vicenda della Shoah, Neher dice che il silenzio parla ed è presente nella fede del credente. La fede del credente è quel luogo dove paradossalmente riluce, parla appunto la potenza di Dio e il Suo amore. E termino con un’immagine che prendo invece da Teresa di Lisieux. Per lei il silenzio diventa il luogo della consegna totale, come la via di abbandono radicale di sè a Dio, è dentro in questo abbandono. Lei arriva a concepire il paradiso, cioè la vita eterna, non più come un’immagine statica, di contemplazione di Dio, ma di una missione, cioè quella missione d’amore che lei ha vissuto su questa terra abbandonandosi completamente all’amore di Dio, lei la concepisce anche come l’eternità. L’eternità sarà un atto d’amore vissuto nei confronti di chi ancora cammina su questa terra e quindi diciamo così che alla fine ciò che esce da questa esperienza del silenzio di Dio è l’invito a entrare in quella che chiameremmo ‘l’intelligenza dell’amore’. Il silenzio di Dio aiuta l’uomo a scoprire questa facoltà che abbiamo dentro tutti ma che in qualche modo il Signore ci chiama a sviluppare attraverso, molto spesso, le prove della vita, che possono diventare il luogo della nostra disperazione. Ma se abbiamo l’umiltà dei bambini, l’umiltà di chi cerca e accoglie la sfida del Signore, può diventare il luogo dove noi impariamo un nuovo modo di comprendere noi stessi gli altri e lo stesso mistero di Dio.
Questo dialogo tra diverse fedi è necessario, ma riesce a dare delle risposte concrete a quelle che sono le sfide che l’umanità si trova ad affrontare, soprattutto in questo tempo segnato dalla pandemia?
L’ascolto reciproco ci aiuta ad apprezzarci a vicenda e a vedere l’altro non come una minaccia, ma come una risorsa. L’identità non può essere vista come qualche cosa di escludente l’altro; in realtà una vera scoperta della propria identità è capace di fare tesoro di quella dell’altro e dunque paradossalmente le religioni anziché diventare strumento di violenza, di minaccia per il mondo, diventano quel luogo in cui si manifesta l’amore di Dio. Quel luogo ci insegna che le religioni sono una risorsa di amore e non di violenza, ma questo è possibile solo conoscendole da vicino, frequentandole, parlando. Frequentare le religioni significa frequentare uomini religiosi diversi e con loro cercare una via comune anche per rispondere alle sfide.