Le mogli dei soldati ucraini in Vaticano: abbiamo chiesto aiuto al Papa

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Salvatore Cernuzio e Francesca Merlo – Città del Vaticano

Sono venute a Roma per salutare il Papa e chiedere aiuto, un qualsiasi tipo di aiuto, per i loro mariti asserragliati con centinaia di altri civili nella Azovastal, l’acciaieria di Mariupol divenuta da settimane campo di scontro ed epicentro del dramma del conflitto in Ucraina. Katheryna Prokopenko e Yulya Fedosiuk, mogli di due comandanti del Battaglione Azov, hanno preso parte all’udienza generale in Piazza San Pietro e, al termine, hanno potuto incontrare brevemente il Papa durante il ‘baciamano’. Un momento fugace, durato pochi minuti, che però le due donne descrivono come “un momento storico” ai giornalisti che incontrano in Piazza San Pietro subito dopo l’udienza.

La speranza 

Giovanissime, una bionda, l’altra castana, una di Kiev, l’altra di Leopoli, entrambe ora dirette in Germania, rispondono alle domande tenendo gli occhi bassi e alternano ad ogni frase un sospiro. Dicono di parlare a nome delle circa 500 mogli dei soldati della Azovstal. Con alcune sono in contatto costante. “Ci si è spezzato il cuore”, affermano descrivendo ai cronisti l’incontro con il Papa. “Non riesco nemmeno a spiegare cosa ho provato in quel momento. Ero un po’ nervosa, perché è un momento storico e speriamo tutti che possa aiutare a salvare le vite dei nostri mariti e dei soldati di Azovstal. Speriamo che questo incontro ci dia la possibilità di salvare le loro vite”, dice Yulja. Un’unica speranza hanno ora lei e la sua compagna: che i combattenti ucraini possano essere evacuati in un Paese terzo. In quel caso, assicurano, “sono pronti a deporre le armi”: “Siamo tutti pronti ad aiutarli, spero. Faremo tutto il possibile per salvarli”.

La situazione nella Azvostal

A Francesco le due giovani ucraine dicono di aver parlato in inglese descrivendo nel dettaglio la situazione nella Azvostal, dove circa 700 dei soldati sono feriti, con arti in cancrena o amputati. Molti, secondo il racconto delle due donne, sono morti e non hanno ricevuto sepoltura secondo la tradizione cristiana. I corpi continuano a decomporsi perché manca refrigerazione. Oltre ai militari, le ragazze affermano che sono presenti nel sottosuolo dell’acciaieria ancora molti civili, principalmente famiglie dei soldati che hanno paura di essere evacuati. Il timore è che i loro mariti vengano torturati e uccisi.

Provviste scarse

Ad aggravare il tutto è la scarsità delle provviste: mancano cibo, acqua, forniture mediche e l’ultimo ospedale è stato distrutto dalle bombe. “La situazione è terribile e lo sentiamo tutte, seguiamo da qui, da sedute. Ogni giorno assistiamo a queste terribili notizie”, spiegano le ragazze. Sono i mariti a riportare loro telefonicamente queste notizie. Uno ha chiamato ieri sera la moglie e lei oggi, interrotta dalle lacrime, racconta di aver assicurato che avrebbe fatto “di tutto” per salvargli la vita. “Scusate sono molto nervosa”, confida ai giornalisti, riferendo pure che due giorni fa il marito le aveva chiesto di cercare un articolo su come vivere senza acqua il più a lungo possibile. “Questa è la situazione!”.

Preghiere

Al Papa, Katheryna e Yulya hanno quindi chiesto aiuto perché nell’immediato si riescano a realizzare dei corridoi umanitari per evacuare gli ultimi rimasti. Il Pontefice ha assicurato loro preghiere e stretto la mano alle due donne. Loro hanno insistito perché il Papa compia un viaggio in Ucraina o magari a Mosca – come egli stesso ha dichiarato essere sua intenzione – per parlare con Putin e trovare una mediazione che porti alla fine di questa guerra “crudele”.

Appello alla comunità internazionale

Un appello le due ragazze lo lanciano anche alla comunità internazionale perché formino “una coalizione forte” che permetta il trasferimento in Paesi terzi. Quali Paesi? “Dipende da quelli che hanno il coraggio di accoglierli. Può trattarsi della Turchia, della Svizzera o di qualsiasi altro Paese che voglia essere il primo a evacuarli, aiutarli e salvarli. Siamo in attesa di questo… Se i nostri mariti potessero andare in un terzo Paese, andremmo con loro. Poi speriamo di tornare a Kiev e nell’Ucraina che amiamo. È importante per noi, non vogliamo essere rifugiati”.