Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Dagli albori della sua esistenza, l’uomo ha sempre fatto i conti con l’ambiente, con la natura che lo circonda. Nel mondo antico sono due gli atteggiamenti fondamentali, l’uno pervaso di timore, l’altro di stupore ammirato e riconoscente.
Questa ambivalenza è espressa nel mondo classico soprattutto dalle personificazioni di divinità, che possono essere terribili o benigne, ognuna contraddistinta da attributi, simboli che riescono a connotarle con oggetti di vario genere e specialmente i frutti della terra e gli elementi del cosmo: i fulmini per Zeus-Giove, il tridente per Poseidone-Nettuno, le messi per Demetra-Cibele e così via, creando un pantheon affollato di dei.
Il paesaggio simbolico
Nelle pitture delle tombe etrusche troviamo la rappresentazione del paesaggio a Tarquinia, nella Tomba della caccia e della pesca, mentre in area magnogreca, a Paestum, emblematica è la Tomba del tuffatore. Si tratta di rappresentazioni simboliche connesse alla morte. In particolare la tomba pestana rappresenta proprio il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti attraverso un volo spiccato da un trampolino per gettarsi nello specchio azzurro dell’inconoscibile.
Una perduta età dell’oro
Nell’Ara Pacis la dea Cibele è assorbita dalla rappresentazione della Saturnia Tellus – la Madre Terra – o della Pax Romana o ancora di Venere Genitrice, sono molte le interpretazioni. Le immagini in ogni caso rimandano a significati di prosperità e di pace legati alla natura. Ci sono molti altri elementi indicativi, come il fregio che corre tutto intorno all’altare sul lato esterno, decorato da girali di acanto e abitato da ogni sorta di piccoli animali. Gli intenti propagandistici del nuovo potere inaugurato da Augusto a Roma sono chiari ovunque sulle figurazioni dell’altare. C’è il rimpianto di una perduta Età dell’oro, cantata anche dai poeti Virgilio e Orazio, e la speranza che possa tornare grazie al buon governo augusteo.
Una natura “governata”
Nell’arte romana, la rappresentazione della natura è frequente anche come protagonista e non semplice fondale, magari fatto di isolati accenni simbolici e convenzionali. Negli affreschi dell’Odissea (entro il 46 a.C.), ora conservati nei Musei Vaticani, si muovono le piccole figure dei personaggi, assorbite dalla magnificenza sinistra o placida del passaggio. Ma ci sono anche giardini privi di figure umane o dove queste hanno finalità semplicemente decorativa. Splendido esempio sono gli affreschi distesi sulle quattro pareti di una stanza della Villa di Livia. Sembra di leggere alcuni passi letterari del romanzo ellenistico di III secolo Dafni e Cloe , dove si prescrive la disposizione degli alberi da frutto rispetto agli altri, le distanze necessarie tra le piante, i bassi recinti. Visitarle a Palazzo Massimo, dove ora si trovano, significa immergersi in un senso di pace profonda.
Ed era questo evidentemente il fine di quel genere di pitture: offrire la visione di una natura rassicurante perché totalmente addomesticata dal lavoro dell’uomo. Non a caso il paesaggio è stato manipolato in modo profondo dai romani, basti pensare alla centuriazione, cioè alla divisione per lotti regolari di vasti appezzamenti di terreno da distribuire poi ai veterani, i soldati in pensione. Ma non soltanto, se pensiamo alla rete consolare di strade ben organizzate o agli acquedotti lunghi chilometri che hanno inciso in modo indelebile l’assetto del territorio. L’uomo romano ha segnato in modo molto evidente e mai come prima nella storia precedente il paesaggio, organizzandolo.
La natura “cosa molto buona”
L’arte è il modo più alto attraverso il quale l’uomo può esprimere se stesso e il mondo. Leonardo scrisse che l’uomo quando dipinge si fa simile a Dio. Un concetto spiegato e approfondito in modo mirabile nella Lettera agli artisti di San Giovanni Paolo II. Per l’artista cristiano il suo rapporto con il creato parte da queste parole della Genesi:
«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona » (Genesi 1, 31)
E la lettera del Papa inizia così:
“Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi” (Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, 1)
Ci sono numerose e precoci opere che ci raccontano la Genesi e attraverso la loro bellezza possiamo cogliere l’ispirazione degli artisti nell’immaginare e rappresentare l’inconoscibile. Tuttavia a lungo, comprese le scene della Genesi di Michelangelo nella Sistina, la natura è rappresentata per cenni, simboli ed elementi convenzionali e si concentra tutta sulle figure umane.
Il Buon pastore
Nel mosaico del Buon Pastore di Galla Placidia l’’ambiente naturale è reso in modo vivace e quasi realistico: Cristo siede su una roccia e le fronde sembrano accarezzate da un vento leggero. Ai piedi cresce rigogliosa l’erba; le pecore gli stanno intorno e Lui ne accarezza una che gli porge il muso con tenerezza, mentre tutte le altre sembrano aspettare un cenno e lo guardano. Si tratta di un’iconografia già nota nell’arte paleocristiana e qui riproposta in chiave monumentale. Un’allegoria vivace immersa in una natura idilliaca.
L’albero della vita
L’albero della conoscenza cresceva al centro del paradiso terrestre (Genesi, 2,9; 3, 22; Apocalisse 7, 2).
Nel prefazio della liturgia dell’Esaltazione della Santa Croce si legge: “Nell’albero della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dell’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto, per Cristo nostro Signore”.
L’albero della vita, assimilato alla croce, ricorre sovente nell’arte. Nella basilica di San Clemente a Roma è una vera esplosione di simboli, resi attraverso elementi della natura.
San Francesco e l’amore per il creato
Una rappresentazione dove l’amore per il creato è visibile e oggettivo è nell’affresco attribuito a Giotto con Francesco che predica agli uccelli. L’amore di Francesco per il creato supera quella divisione tra natura “orrida” e natura “amena” che rappresentava il cardine della percezione degli antichi. È una visione senza giudizio e dove l’amore prorompe. Non a caso nel Cantico delle creature il fraticello d’Assisi si rivolge agli elementi della natura e financo alla morte chiamandoli sorelle: si pone sullo stesso piano, senza alcuna volontà di prevaricazione.
“Per questo chiedeva che nel convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbero ammirate potessero elevare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza” (FF 750).
Nell’enciclica Laudato sì’ papa Francesco scrive: “Per questo è significativo che l’armonia che san Francesco d’Assisi viveva con tutte le creature sia stata interpretata come una guarigione di tale rottura” . Papa Francesco spiega che “Questa rottura è il peccato. L’armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato è stata distrutta per avere noi preteso di prendere il posto di Dio, rifiutando di riconoscerci come creature limitate” (Laudato sì’ 66) tanto da disattendere il mandato di Dio di custodire il creato pretendendo invece di soggiogarlo.
Il paesaggio come racconto allegorico
Nel tempo la natura viene rappresentata con sempre maggiore evidenza. Naturalmente questo è dovuto anche alla tecnica pittorica capace di dare profondità alle immagini attraverso la prospettiva e l’uso del colore. La natura si riveste di bellezza, trascolora verso l’orizzonte sereno. Nel Medioevo la natura è la promessa di quel paradiso perduto con il peccato originale. Accanto a figurazioni riferite alla creazione, appaiono sovente, specialmente nei codici miniati, scene di vita quotidiana con il lavoro nei campi.
Più tardi, artisti come il Bellini inscenano delle allegorie ambientate in un paesaggio articolato. L’eden di Cranach è un trionfo di verde e le figure sono piccole, immerse in questo giardino di delizie.
La natura come soggetto principale
Il paesaggio e le nature morte diventano protagonisti a partire dal Settecento, proprio quando avviene un progressivo scollamento dell’arte sacra rispetto all’ispirazione artistica.
E Papa San Giovanni Paolo II scrive parole illuminanti:
E’ vero però che nell’età moderna, accanto a questo umanesimo cristiano che ha continuato a produrre significative espressioni di cultura e di arte, si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi. Voi sapete tuttavia che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione (Lettera gli artisti, 10)
La spiritualità è evidente nei paesaggi ottocenteschi, specie nelle raffigurazioni dei lavori nei campi e occorre indagare nei singoli artisti per capire quale sia stata la loro ispirazione.più profonda. Il romanticismo si riflette pienamente nella percezione della natura con rivoli espressivi via via più complessi e sfumati. Di certo è che molte opere sono intrise di un sentimento di profonda spiritualità.
Il mistero dello stagno
Nel 1890 Monet si ritirò nella sua villa di Giverny dove fa del suo giardino un personale paradiso terrestre. Per un periodo dipinge solo ninfee, rapito dalla magia dello stagno, un microcosmo fermo ma ogni giorno mutevole, pieno di vita e come scrisse lui stesso, di mistero.
Sempre nell’Ottocento pittori come lo stesso Monet o Turner dipingono una natura dove passa l’invenzione del momento: il treno. Ancora è visibile la disputa tra natura e capacità dell’uomo di dominarla mentre allo stesso tempo dipingono scene distese e serene ma anche inquietanti. Riemerge un tema ricorrente fin dall’antichità: il terrore del mare e il naufragio.
L’urlo
Munch, ne L’Urlo mostra un uomo dissolto e scuro, sullo sfondo di una natura protagonista e incombente: lo sfondo è un cielo di lingue rosse e la terra simile a lava scura. È lo stesso artista a raccontarne il significato, concludendo: “E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
Su questa opera sono stati scritti fiumi di parole, ma ci chiediamo se quell’urlo riguardi lui solo, in un “periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima” o era la natura a urlare, oppure entrambi, e diventare un tutt’uno. Probabilmente si tratta di un mutuo rapporto: un’armonia spezzata che chiede aiuto, che chiede di ritrovarsi.