Chiesa Cattolica – Italiana

L’arcivescovo di Reggio Calabria: il Pallio una chiamata a “mescolarsi” tra la gente

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Il Pallio, un “segno di unità con Pietro che ricorda la missione del pastore che dà la vita per il gregge”. Con queste parole Papa Francesco, nella messa di ieri nella Basilica vaticana per la Solennità dei Santi Pietro e Paolo, ha benedetto i Palli che riceveranno gli arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’ultimo anno. Tra loro c’era monsignor Fortunato Morrone, dal 20 marzo scorso nuovo metropolita di Reggio Calabria-Bova. “Don Fortunato”, come tutti hanno sempre chiamato e conosciuto e come tutti continuano a chiamare e conoscere questo sacerdote colto e affabile, considerato “colonna portante” nella diocesi di Crotone da dove proviene. Il Pallio gli verrà imposto dal nunzio apostolico. È dal 2015 che il Papa consegna infatti il Pallio, senza imporlo, ad ogni metropolita: un modo per favorire una maggiore partecipazione del popolo di Dio, essenza stessa del ministero episcopale. E per monsignor Morrone, da sempre “mescolato” alla sua gente, soprattutto quella ferita dalle problematiche della vita o – nel caso del suo paesino natale, Isola Capo Rizzuto – da malaffare, povertà e disoccupazione, il Pallio è proprio questo: “Un segno di comunione”. Così dice a Vatican News.

Ascolta l’intervista a monsignor Fortunato Morrone

Eccellenza, cosa ha significato per lei ricevere il Pallio dal Papa?

È stata una giornata particolarissima, una grande emozione. Oltre alla responsabilità dell’arcidiocesi, si aggiunge quella della metropolia, quindi l’attenzione alla comunione fraterna tra i vescovi che fanno riferimento a Reggio Calabria. È un’attenzione speciale che dobbiamo avere gli uni per gli altri, ma soprattutto perché è un lavoro non soltanto ecclesiale, ma che certamente avrà un riverbero nel nostro territorio: Locri, Mileto, Oppido Palmi, una bella fetta della Calabria insomma.

Di che territorio si tratta?

È un territorio con grandi potenzialità, non soltanto a livello ecclesiale. È molto ricco, ricco anche di iniziative e di realtà sociali e associative, pur tenendo conto delle difficoltà della nostra Calabria. Problemi atavici di ordine sociale, il tratto sempre nebuloso del malaffare… Un aspetto, questo, che certamente è entrato nel tessuto territoriale, anche se devo dire che le persone stanno reagendo, c’è maggiore consapevolezza, più reazione anche da parte dei giovani. È proprio sui giovani che dobbiamo puntare, non soltanto per quello che riguarda l’aspetto biologico, ma per un futuro concreto, diciamo “corposo”. È una sfida educativa, anche e soprattutto per noi adulti, perché se viene a mancare la maturità di noi adulti i giovani non ci sono. Quindi, nel complesso, parliamo di un territorio bello, molto bello, pieno di luci ma con tante ombre. Quelle, però, sono secondarie. Bisogna vederle, combatterle e agire lì dove è possibile.

La Calabria è anche terra dalle porte aperte, come dimostrano i numeri di migranti sbarcati nei porti calabresi e accolti nelle diverse città…

Sì. Reggio Calabria si è mostrata, come tutte le altre diocesi, territorio e chiesa che ha accolto i migranti. Ma questo è un dato storico, noi siamo stati attraversati da tanti popoli, tante genti. Attualmente continuiamo ad accogliere anche se mentre accogliamo, tanti nostri giovani emigrano, vanno fuori in cerca di lavoro sicuro. Dare possibilità ai nostri giovani di rimanere nel territorio e realizzare i propri sogni proprio lì nella loro terra, penso che sia una delle più grandi sfide. C’è tanta ricchezza, ricchezza umana soprattutto, ma anche ricchezza naturale che il Creatore ci ha regalato, ma bisogna farla fruttificare. 

Nell’omelia per la messa dei Santi Pietro e Paolo, il Papa ha esortato a liberarsi di paure e aspirazioni di potere per essere credibili e porsi al servizio del prossimo. Come si sposa questo invito del Papa con il suo ministero episcopale, dentro lo scenario che ha descritto? 

Bisogna essere anzitutto sé stessi. Poi “mescolarsi”, cioè stare dentro la realtà sociale, che dovrebbe essere la normalità perché il Vangelo ci spinge a questo. Significa essere lì dove la gente vive: dai giovani agli adulti, dagli anziani ai piccoli. Questo stare dentro vuole essere una presenza di Dio che si prende cura di chi non ha parola, o come dice il Papa degli “scartati”. Credo che non si tratta di fare grandi manifestazioni, ma solo di “esserci” lì dove le urgenze emergono ma anche nella normalità del quotidiano, per tanta gente che lavora nel “sottosuolo”. Persone come casalinghe, lavoratori professionisti, che vivono al meglio delle loro possibilità i doni di cui Dio li ha dotati.

Ancora il Papa ha parlato di una “perdita della speranza che abbruttisce la vita delle donne e degli uomini del nostro tempo”. Cosa si può fare secondo lei per recuperarla questa speranza?

Per vincere la rassegnazione, oltre che la lotta contro tutto ciò che ci inquina, ci devasta umanamente, bisogna far emergere la luce che smaschera le tenebre. Noi tante volte come calabresi ci rassegniamo, “non possiamo farci nulla”, quasi una rassegnazione sottile… perché si mette sempre in evidenza ciò che non va, quando invece ci sono tante belle cose che invece vanno bene, grazie a Dio, e che andrebbero valorizzate.

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