La capacità di compassione verso gli ultimi e l’accoglienza della sofferenza per amore di Cristo, e poi la santità vissuta nella vita matrimoniale e nella maternità nel diverso percorso di quattro donne al centro del pomeriggio che ha concluso il Convegno internazionale interuniversitario che si è tenuto a Roma dal titolo: “Donne nella Chiesa: artefici dell’umano”
Adriana Masotti – Città del Vaticano
Santa Teresa di Calcutta, santa Rebecca (Rafqa Ar-Rayès), la beata Maria Beltrame Quattrocchi e la serva di Dio Daphrose Mukansanga sono le quattro figure di donne che il Convegno internazionale interuniversitario “Donne nella Chiesa: artefici dell’umano” ha scelto di presentare nel secondo pomeriggio dei lavori ospitati dalla Pontificia Università della Croce a Roma. Il programma prevede due panel: “Un cuore compassionevole” è il titolo del primo; ” La fecondità del dono”, è il secondo. Oltre alle Pontificie Università della Santa Croce e Urbaniana, hanno promosso l’evento l’Università Cattolica di Avila, la Pontificia Facoltà Teologica Teresianum, l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum e la Pontificia Facoltà Teologica Teresianum.
Un cuore compassionevole
Fra tutte le figure di sante presentate nel Convegno, in tutto dieci, forse la più conosciuta è santa Teresa di Calcutta, per tutti Madre Teresa, vissuta tra il 1910 e il 1997. María Mercedes Montalvo García, della Pontificia Facoltà Teologica Teresianum di Roma, sottolinea subito in Teresa la precoce ispirazione a dedicarsi ai poveri, già all’età di 12 anni: “Nel suo cuore – afferma – abitava già allora questa particolare chiamata che, tuttavia, prende un volto e una forma concreta nel 1946” quando “a trentasei anni e dopo quasi venti di vita consacrata in India, si lascia chiamare nuovamente da Dio”. Lei sente che è Cristo stesso che la chiama ad occuparsi dei più bisognosi attraverso quel grido sul Calvario che rieccheggia nella sua anima: “Ho sete”. “La chiamata – prosegue la docente – travalicava ogni logica: ‘Nostro Signore desidera che io sia una suora libera, rivestita della povertà della croce. (…) È la sua volontà e devo compierla”, dirà la santa. Teresa fonda la congregazione delle Missionarie della Carità. La loro vocazione consiste nell’appartenenza a Cristo per saziare la sete d’amore delle anime espressa da Gesù e un tratto caratteristico del suo carisma è: non “per i poveri”, ma “tra i poveri”, per dare una testimonianza di compassione attraverso gesti concreti “perché l’amore è pratico”. Evidente la sua attualità: “Possiamo dire di Madre Teresa che è ‘una santa per i nostri tempi’, perché si è dedicata alla cura dei più poveri tra i poveri, agli emarginati della società – afferma Montalvo García. Il suo messaggio di compassione è arrivato in quasi tutto il mondo e proprio nei luoghi di conflitto e di sofferenza come Gaza, Ucraina, Siria, Yemen.
Identificarsi con la Passione di Cristo
Santa Rebecca vissuta tra 1832 e il 1853 è la seconda santa presentata in questo panel: nasce a Himlaya un villaggio del Libano, sceglie la vita religiosa ed entra nel convento di Nostra Signora della Liberazione. Viene poi incaricata di formare le ragazze che desideravano far parte della Congregazione delle Mariamât (Figlie di Maria). In quel periodo il suo Paese è segnato da avvenimenti sanguinosi: “Rafqa assistette con i propri occhi al martirio di un gran numero di persone – ricorda monsignor Rafic Warcha, vicario patriarcale Maronita a Roma, che ne traccia una breve biografia – . Ebbe anche il coraggio di nascondere un bambino sotto il proprio mantello, salvandolo dalla morte”. Più tardi entra nell’Ordine delle Monache Libanesi Maronite. In esso per 26 anni rappresenta “l’esempio vivente, per le consorelle, dell’obbedienza alle Regole, dell’assiduità delle preghiere, dell’ascesi, dell’abnegazione, e del lavoro compiuto in silenzio”. Arriva poi la malattia in particolare agli occhi che la rende cieca. Visse l’ultima parte della sua vita tra le sofferenze fisiche dicendo di sentirsi, come lei stessa aveva chiesto al Signore, “in unione con la Passione di Cristo”. “La vita di Rafqa – dice ancora Rafic Warcha – è veramente una meraviglia; un mistero nella logica umana; e il fatto di sopportare le sofferenze è motivo di stupore per l’uomo di oggi che cerca la salute perfetta e rifiuta la sofferenza”. Il suo esempio di accoglienza del dolore come via per arrivare a Dio illumina la drammatica situazione che molti cristiani stanno vivendo in questi momenti in Oriente, costretti spesso a fuggire e a perdere tutto ciò che posssiedono per cercare una vita più dignitosa. “Alla luce della spiritualità di santa Rafqa siamo chiamati a vivere la pazienza frutto dello Spirito Santo”, conclude monsignor Warcha, e il suo esempio di vicinanza alle persone sofferenti “insegna che anche noi, come Chiesa, durante la guerra e tutte le tribolazioni, dobbiamo affrontare le sofferenze e vivere una comunione”.
La fecondità del dono e la santità di coppia
La beata Maria Beltrame Quattrocchi (1884-1965) è la figura femminile che apre il secondo panel di questo pomeriggio dal titolo: “La fecondità del dono”. Di lei offre un profilo Cristina Righi dell’Associazione AMARLUI, impegnata con il marito nella pastorale famigliare della diocesi di Perugia. “La santità – afferma – è un cammino che deve portare alla pienezza della vita, al compimento della volontà di Dio nell’esistenza donata. Vediamo come questo ideale di santità si è incarnato nella persona di questa beata”. Maria Beltrame Quattrocchi di Firenze e Luigi di origini catanesi, il suo futuro marito, si incontrano nel 1901. Maria è consapevole che lei, come il suo “Gino”, fanno parte di un progetto più alto e più grande delle loro semplici vite. Si sposano a Roma quando lei ha 21 anni e lui 25. Avranno 4 figli, i primi tre sceglieranno la vita consacrata, l’ultima figlia, Enrichetta, è oggi Serva di Dio. “L’esperienza della quarta gravidanza fu decisiva per il percorso di fede dei due coniugi”: Maria rischia infatti di morire, ma d’accordo con il marito rifiuta l’aborto e affida tutto a Dio. Maria vivrà un percorso molto ricco: “un apostolato della penna, che la vede autrice di numerosi scritti e articoli; un’evangelizzazione attenta in specie ai giovani, alle donne, alle spose, e alle mamme; una attività di grande responsabilità all’interno dei nascenti movimenti spirituali; sarà precorritrice dei tempi, pensando ed attuando per prima un corso di preparazione al matrimonio; servirà in opere di carità e di accoglienza in tutti gli aspetti del sociale e dello spirituale”.
Maria e Luigi saranno proclamati insieme beati il 21 ottobre 2001 da san Giovanni Paolo II. “Maria – prosegue Righi – comprende che sarà una guida spirituale per la sua famiglia. (…) È il ‘noi coniugale’ a dover essere generato per primo con Dio al suo centro”. “Avverte l’urgenza di presentare alle nuove generazioni il matrimonio quale esso realmente è nel progetto divino, un progetto che non può vedere una prevalenza, finanche una sopraffazione, maschile”. Cristina Righi sottolinea ancora l’attualità della testimonianza di questa coppia in un tempo di forte crisi della relazione: “La vita vissuta per se stessi e in se stessi, alla ricerca di una realizzazione solo e preminentemente personale, che molto riempie ma poco soddisfa, non è quella vocazione alla quale siamo chiamati. E Maria insegna che questa vita va spesa per la felicità: non la propria, ma degli altri e di tutti coloro che con noi entrano in relazione. Chi è più intimo, se non il coniuge?”
Il cuore della famiglia
L’ultima donna protagonista del Convegno interuniversitario è la serva di Dio Daphrosa Mukansanga (1944- 1994) del Ruanda, sposata con Cyprien Rugamba. Il belga Jean Luc Moens, professore e biografo, membro della Comunità Emmanuel, dà inizio al suo intervento descrivendo le difficoltà iniziali del loro matrimonio da cui nasceranno 10 figli. Cyprien diventa famoso nel Paese come compositore e coreografo. “Daphrosa si occupa della gestione della casa, dove spesso soggiornano 25 persone: i suoi figli, i fratelli e le sorelle di Cyprien e i suoi stessi fratelli e sorelle. È una madre attenta e un’educatrice eccezionale”. Si avvicina al Rinnovamento Carismatico, la sua vita spirituale si trasforma e l’amore con cui si dedica al marito converte anche Cyprien. “Insieme, guidano un gruppo di preghiera nella loro casa di Butare. Insieme, aiutano i poveri”. Nel settembre 1990 insieme fondano nel loro Paese la Comunità Emmanuel. “Una settimana dopo scoppia la guerra. L’insicurezza si impadronisce del Paese. Cyprien e Daphrosa evangelizzano ovunque, anche per strada. Organizzano weekend per coppie. La loro casa è sempre aperta a tutti”. “Vivere nell’insicurezza è una dura prova per Daphrosa – dice Jean Luc Moens -. Ogni giorno deve compiere atti di fiducia in Dio. Sostiene senza esitazione la lotta del marito per la pace e la giustizia. Per lei, come per lui, “non esistono Hutu o Tutsi, ma solo figli di Dio”. Il 7 aprile del 1994 i soldati della guardia presidenziale la uccidono con tutta la sua famiglia in quanto cristiana. L’insegnamento di Daphrosa, prosegue il docente, si può riassumere così: “Daphrosa ci mostra il potere della preghiera, della perseveranza, dell’amore e del perdono. Lei ha creduto, contro ogni previsione, nella grazia del sacramento del matrimonio.” E aggiunge: “La testimonianza di Daphrosa tocca le donne di tutto il mondo. È un faro di speranza e un modello di comportamento per tutte le donne che incontrano difficoltà nelle loro relazioni. È anche un magnifico esempio di dolcezza e di perdono.”
Come Maria Beltrame Quattrocchi anche Daphora Mukansanga è esempio di donna affidata a Dio e di dialogo tra maschile e femminile che ci aiuta, è la conclusione del panel, a coltivare un autentico spirito di fraternità e di comunione ecclesiale.