L’ambulante immigrato e la memoria di ciò che eravamo

Vatican News

Massimiliano Menichetti

Sono in spiaggia, sotto l’ombrellone, alla mia sinistra, una coppia con un cagnolino. L’ora è calda e il mare di cristallo. Tra asciugamani e lettini fa lo slalom un ragazzo con la pelle nera: vende stoffe, teli prendisole e qualche collana. Parla un perfetto italiano. Il volpino inizia ad abbaiare contro il venditore ambulante. La padrona mostra soddisfazione: “Fa sempre così quando li vede”. L’uomo  che è con lei incalza: “Fai bene bravo!”. Tutt’intorno c’è chi abbassa gli occhi e chi annuisce. Il ragazzo frettolosamente scompare tra gli ombrelloni.

Penso a mio nonno: contadino (ha sempre amato la terra), commerciante, prigioniero in Africa durante la Seconda Guerra Mondiale, venditore ambulante, emigrato in Canada nell’aprile del 1954, per 15 anni (tornò una prima volta dopo 7 anni). Dante partì perché “in Italia praticamente non c’era lavoro e quel poco bastava per farti mangiare, ma non per creare un futuro e far studiare i figli”. Quando s’imbarcò lasciò nonna Iolanda – altro gigante di amore e determinazione – crescere la famiglia, quattro figli, con lei c’era Emilia la mamma di Dante. Il nonno ribadiva quanto fosse importante imparare la lingua del posto, non amava l’italianizzazione delle parole: “Ogni giorno una parola nuova”, per poter capire, farsi capire e aiutare gli altri italiani.

Il Canada nei suoi racconti era una terra bellissima, affascinante, ricca di opportunità e rispetto, un luogo in cui vivevano persone corrette. Tra i tanti racconti amava ricordare quando comprarono una casa in Italia. Il nonno e la nonna decidevano tutto insieme, i dialoghi, a mezzo posta, duravano mesi. Per poter perfezionare l’acquisto Dante avrebbe dovuto ritirare parte dei risparmi depositati in banca. La mattina in cui avrebbe dovuto inviare i soldi, il responsabile dell’istituto di credito, dove il nonno aveva il conto corrente, si trova a percorrere con la sua automobile la stessa via.

Il direttore della filiale lo riconosce, suona un colpo di clacson e gli da un passaggio. Durante il viaggio l’uomo apprende che mio nonno avrebbe ritirato parte dei risparmi: “Non può ritirarli oggi, perderebbe gli interessi che ancora non sono maturati, chiamerò in Italia garantendo la presenza della somma necessaria all’acquisto. I soldi saranno trasferiti a fine mese”. Ogni volta che il nonno ricordava questo evento gli occhi si velavano di commozione, per gratitudine credo.

La nonna, quella sera, vide arrivare una macchina, ebbe una gran paura che fosse successo qualcosa, erano i funzionari della banca italiana venuti ad avvertire della garanzia ricevuta. “Questo era il Canada”, lo stesso Paese, che quando mio nonno si infortunò con un cavo d’acciaio, che gli colpì una gamba, lo trasferì in aereo per un intervento chirurgico, preoccupandosi di ogni aspetto: sanitario, assicurativo, riabilitativo…

In altri Paesi non era sempre così, a volte: “gli italiani venivano sfruttati, umiliati, scacciati, quasi guardati come animali”. Il cuore degli italiani è grande, e lo è davvero. Siamo un popolo generoso, accogliente, solidale, forte, caritatevole, compatto, in cui brillano eccellenza, creatività, passione, arte… Questi siamo noi, non dobbiamo dimenticarlo mai. Il punto non è solo ricordare chi eravamo, in modo da poter guardare l’Altro – questo aiuta certo – il punto è porgere una mano per primi, è riconoscere lo sforzo di chi cerca con sacrificio e difficoltà, di cambiare un destino duro e difficile, è ricordarsi che “nessuno si salva da solo”, come direbbe Papa Francesco.