Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
All’udienza generale del 12 gennaio il pensiero di Papa Francesco è andato “a tutti i lavoratori del mondo, in modo particolare a quelli che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche”. Ed anche a coloro “che sono sfruttati con il lavoro in nero, alle vittime del lavoro, ai bambini che sono costretti a lavorare”, “a chi è senza lavoro” e a quanti “si sentono giustamente feriti nella loro dignità perché non trovano un lavoro”. Sulle parole del Pontefice si sofferma Emiliano Manfredonia, presidente delle Associazioni cristiane lavoratori italiani (Acli), che ricorda anche alcune delle criticità e delle sfide nell’attuale scenario italiano.
Emiliano Manfredonia, lavoratori con carichi di lavoro usuranti, bambini costretti a lavorare, lavoratori in nero, persone che non trovano lavoro. Papa Francesco ha ricordato all’udienza generale alcuni dei volti più preoccupanti legati al mondo dell’occupazione. Quello che da dignità, ha detto, è “guadagnare il pane”. Il lavoro è “un’unzione di dignità”…
Papa Francesco ci porta, con uno sguardo mondiale, nella carne viva dei problemi del lavoro. Il Papa fa riferimento anche ai bambini che sono costretti a barattare quello che trovano nelle discariche. Magari troviamo compassione, ma non riusciamo mai a trasformare questa compassione in una ribellione per poter veramente anche trovare giustizia. Il lavoro, anche in Italia, spesso è povero: è un lavoro che non riesce a far mantenere le persone e questo influisce sulla vita delle famiglie. Il lavoro povero è un lavoro malpagato. E purtroppo assistiamo a tantissimi lavori, soprattutto quelli legati alla “green economy”, che sono poveri: le persone lavorano tanto, ma hanno retribuzioni molto basse.
Il Papa ha indicato una terribile piaga: “Molti giovani, molti padri e molte madri – ha detto – vivono il dramma di non avere un lavoro che permetta loro di vivere serenamente”. E tante volte si perde “ogni speranza e desiderio di vita”. “In questi tempi di pandemia – ha ricordato ancora – tante persone hanno perso il lavoro e alcuni, schiacciati da un peso insopportabile, sono arrivati al punto di togliersi la vita”.
Ci sono purtroppo su questo delle statistiche agghiaccianti: l’incapacità di trovare un lavoro e l’incapacità col proprio lavoro di mantenere la propria famiglia hanno portato molte persone alla disperazione. C’è poi il dramma dei giovani che non riescono a trovare il lavoro, di persone che si arrendono e non lo cercano più. Il tema del lavoro povero e mal retribuito ha, inoltre, conseguenze sociali importanti: riguarda le opportunità che si possono offrire ai figli nell’istruzione, nel poter praticare un’attività sportiva, di avere una vita relazionale bella. Questa è anche una povertà educativa. L’altra povertà è, poi, quella verso il futuro perché non riusciamo a migliorare la vita dei nostri figli e non riusciamo nemmeno a costruirci una tranquillità per il futuro. Anche piccole cose diventano dei macigni, come per esempio curare una malattia ai denti. Ci sono delle difficoltà e delle umiliazioni alle quali sono costretti gli uomini e le donne di questo tempo che rischiano veramente di sconfortare.
Il lavoro, ha aggiunto il Papa è spesso “ostaggio dell’ingiustizia sociale e, più che essere un mezzo di umanizzazione, diventa una periferia esistenziale”. “Vediamo la nostra attività – ha chiesto il Papa – legata solo al nostro destino oppure anche al destino degli altri? “Il lavoro – ha proseguito – è un modo di esprimere la nostra personalità, che è per sua natura relazionale”.
Il lavoro è partecipazione al bene comune e deve essere anche solidarietà: deve costruire relazioni solide con gli altri e portare ad avere il proprio posto nella comunità. Quando si nega un lavoro e quando il lavoro è disumanizzante, si nega tutto questo. Se pensiamo al lavoro ad esempio dei rider, questo è un lavoro che rischia di essere disumanizzante. Non si tratta di una attività provvisoria: oggi in Italia ci sono 600 mila persone che hanno solo questo livello di sostentamento.
Francesco ha anche recitato la preghiera che San Paolo VI elevò a San Giuseppe il primo maggio del 1969, affinché protegga i lavoratori nella loro dura esistenza quotidiana e li difenda dallo scoraggiamento…
Questo periodo scosso dal Covid ha portato a nudo quelle che sono le fragilità del lavoro: ci sono persone tutelate, persone meno tutelate e persone per niente tutelate. E si cade nello sconforto. Ma se il lavoro è quello di San Giuseppe, di Gesù Divino Lavoratore, il lavoro è umanizzante ed è un punto fondamentale su cui costruire la nostra storia di uomini e di donne.
Guardiamo all’Italia. Le misure messe in campo dal governo durante la pandemia sono state sufficienti? C’è grossa attesa sul Pnr. Su quali settori puntare?
L’Italia ha pianificato una serie di misure di sostegno al reddito. È difficile dire se siano state sufficienti. Purtroppo si è pensato a selezionare queste misure ed è sempre mancato qualcosa: pensiamo al mondo della cura, a quello delle persone con partita Iva. Molte misure hanno cercato di tamponare e non c’è stata una risposta di tipo universalistico. È stato creato il reddito di emergenza per coloro che non avevano alcuna protezione sociale e si è riusciti, comunque, a tamponare difficoltà momentanee. Il Pnr deve essere quello strumento capace di rimettere le fondamenta al lavoro. In queste fondamenta noi, come Acli, pensiamo che la parte centrale sia la formazione: se vogliamo far ripartire l’Italia con uno sguardo soprattutto alla digitalizzazione e all’ambiente, questo sviluppo deve essere accompagnato senza abbandonare le persone. Dobbiamo accompagnare queste persone, poco digitalizzate, in questa transizione. La formazione è fondamentale sia nell’ingresso del mercato del lavoro, sia per restare nel mercato del lavoro e sia per adeguare le proprie mansioni e capacità a questi tempi. Quindi il Pnr dovrebbe centrare molto questo focus per evitare che, nel pensare di far crescere l’economia, si abbandoni una fetta importante dei nostri lavoratori.
Come ha ricordato Papa Francesco, anche in Italia sono in aumento i morti sul lavoro. Segno che in troppi non rispettano le regole e che i controlli sono scarsi?
La necessità di lavorare, di fare profitto e di recuperare il tempo perso può far dimenticare in modo molto grave e colpevole l’adeguamento alle norme minime di sicurezza. Questo è uno scandalo. Credo che sia veramente la conseguenza di una ripartenza sulle stesse basi di prima: quelle legate esclusivamente al profitto. I controlli servono, sono importanti e vanno rafforzati. Probabilmente, però, bisogna un po’ anche cambiare la mentalità: bisognerebbe dare ai lavoratori la possibilità di poter, se non denunciare, segnalare le mancanze di sicurezza sul posto di lavoro. Ma senza finire, però, nella lente di ingrandimento del datore di lavoro. Si deve anche cercare di lavorare di più sulla prevenzione. Ed anche su una maggiore collaborazione tra datore di lavoro e lavoratori.