Chiesa Cattolica – Italiana

La violenza sessuale legata ai conflitti: denunciare con un’azione integrata

La conferenza, organizzata a Roma dall’Ambasciata britannica presso la Santa Sede con il contributo dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche, ha posto all’attenzione internazionale un fenomeno in aumento e spesso trascurato. Testimonianze dalla Repubblica Democratica del Congo, dal Sud Sudan, dall’Ucraina. Il Prefetto Ruffini: osservare il male e trasformarlo con la forza del bene

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Cosa resta dei traumi della violenza di genere nei conflitti? E quali vie si possono percorrere per tentare di rimarginare ferite profonde che finiscono per rompere anche i legami sociali della comunità di appartenenza, riempendo di vergogna le vittime? Se n’è parlato oggi pomeriggio, 24 marzo, presso l’Istituto Maria Santissima Bambina, a Roma, nell’ambito della conferenza internazionale “Conflict-Related Sexual Violence Raising Awareness” promossa e organizzata dall’Ambasciata britannica presso la Santa Sede in collaborazione con l’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche (WUCWO). A moderare l’incontro, a cui ha partecipato anche il Prefetto del Dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, è stata Suor Bernadette Reis, del coordinamento editoriale del medesimo Dicastero.

Congo, Nyota: violentata perché albina, il JRS l’ha salvata

La voce di chi ha subito violenza in contesti di guerra, dall’Africa all’Ucraina, ha commosso i partecipanti. Dalla Repubblica Democratica del Congo, in video collegamento, la testimonianza di Nyota Mapendo, dociottenne del Nord Kivu, che ha avuto l’opportunità di incontrare Papa Francesco in occasione del Viaggio apostolico nel Paese africano e a lui ha raccontato la sua storia di sopravvissuta e di attivista per le persone con albinismo. Dal 2016 è coinvolta in un progetto di salute mentale e sostegno psicosociale organizzato dal Jesuit Refugee Service per l’accompagnamento degli sfollati interni. Rapita da un gruppo di uomini armati, è stata violentata e questo episodio si è ripetuto finché è rimasta incinta: “la mia vita è andata in pezzi”, racconta. Grazie al sostegno e all’advocacy del JRS, è riuscita a tornare a scuola, che ama tanto. Nyota fortunatamente è stata accettata dalla sua famiglia, nonostante il suo albinismo, ma fin da piccola è stata discriminata nella comunità: è diffusa infatti la credenza che queste persone abbiano poteri magici e quindi che siano da allotanare. “Vengono spesso uccise e mutilate, e i loro corpi venduti a coloro che credono porteranno loro ricchezza e forza”, racconta. L’incontro con il JRS l’ha tutelata nel suo diritto all’istruzione, ma ha anche sensibilizzato sui diritti delle persone albine: “Ora mi sento felice e apprezzata”. L’appello è di aiutare la sua gente a combattere l’impunità nella RDC, e a costruire la pace: “la guerra è la causa di tutti i nostri problemi”.

Dalla Repubblica Democratica del Congo, la storia di Nyota Mapendo

Gli abusi su donne e bambini spezzano la rete sociale 

Padre Bernard Ugeux, collegato da Bukavu (RDC) insiste sullo stupro come arma di guerra e sulle gravi conseguenze psicologiche, sociali e culturali che procura. Si sofferma sulla vergogna della donna nei confronti del marito e dei figli e sulla vergogna del marito per non essere stato in grado di proteggerli. “Spesso dopo lo stupro si assiste a mutilazioni genitali”, e aggiunge: “Si tratta di un vero e proprio tentativo di distruggere una rete sociale”. Illustra il suo coinvolgimento nella protezione e nella reintegrazione dei sopravvissuti e nella formazione di persone consacrate per accogliere e accompagnare queste persone. In particolare, descrive l’opera del Centro Nyota, riconosciuto dalla Chiesa cattolica e dallo Stato congolese e sovvenzionato da donazioni esterne. Offre assistenza olistica e psicosociale a 250 ragazze e giovani donne, considerando che anche i bambini hanno bisogno di assistenza medica a causa della violenza che subiscono. Ricorda l’importanza del “Protocollo internazionale sulla documentazione e l’investigazione della violenza sessuale legata ai conflitti” a cui hanno contribuito, oltre che il governo britannico, i missionari d’Africa. “L’appello – conclude – è di aiutarci contro la banalizzazione di questo crimine”.

Aiutare le vittime: il corpo non è territorio da sfruttare

Barbara Paleczny fa parte della associazione Solidarity with South Sudan, di cui coordina l’ambito relativo alla Giustizia e alla Pace. Anche lei ha offerto la sua testimonianza raccontando con estrema vividezza e creatività i frutti di un lavoro di dodici anni avviato in scuole per insegnanti accreditate dal governo a Yambio, Malakal e in aree remote, in un istituto di formazione sanitaria per infermieri e ostetriche a Wau, in un progetto agricolo-educativo a Riimenze e in un centro pastorale a Kit. Parla di una violenza che diventa ‘normale’, un modo di relazionarsi. Fa riferimento agli stupri di gruppo, ai bambini soldato, ai soprusi su mogli e figli, ai matrimoni forzati tra bambini. “Il trauma – afferma – non deve essere una condanna a vita”. Attraverso un lavoro sul corpo, si aiutano le vittime a riappropriarsene: “Una delle mie grandi gioie è stata camminare per il campo profughi dove donne vivaci mi hanno mostrato le loro bancarelle e vedere donne e ragazze, ovunque, sollevarsi, trovare la loro voce e il loro potere”, racconta. “Abbiamo lavorato con decine di migliaia di persone di tutte le età: gruppi di donne, leader interreligiosi, politici, giovani, soldati, poliziotti, prigionieri e molti malati di lebbra”. La sua testimonianza è corredata da disegni che lei ha realizzato e che mostrano il tentativo di rappresentare questa operazione di ‘riscatto’. Gradualmente, grazie all’aiuto specializzato delle équipe di Barbara, il corpo femminile si è liberato dallo stigma, dal considerarsi un territorio da controllare e sfruttare. “Sebbene la corruzione sia presente a qualsiasi livello – precisa Paleczny – le sotto-tribù possono responsabilizzare i loro leader locali meglio di quanto non sia in grado di fare una lontana élite al potere”. Barbara inoltre invita a cambiare prospettiva: “Il mondo non è loro e noi. La comunità mondiale è un ‘noi collettivo’ ferito. Le persone hanno creato gli attuali sistemi di oppressione e le persone possono cambiarli. Tutti, in fondo, siamo guaritori feriti”.

Le donne in Sud Sudan in un disegno di Barbara Paleczny

Ucraina: la guerra distrugge città e calpesta la dignità 

Dall’Africa all’Ucraina: comune denominatore la guerra. Natalia Holynska, responsabile del progetto Caritas Ucraina contro la tratta, illustra il contributo dell’organismo nella formazione e nell’informazione sui casi, aumentati enormemente con l’invasione russa, di violazione dei diritti umani dei civili. “Ci troviamo di fronte a casi gravi e crudeli di sfruttamento sessuale di donne e ragazze”, registra. Kiev, Chernihiv, Irpin… i luoghi dove maggiormente ciò accade, i soldati russi ne sono artefici, denuncia Natalia che sottolinea come alcune vittime si sono suicidate per il senso di vergogna. La testimonianza assume tratti raccapriccianti: “Sotto la minaccia di morte o di torture, sono stati costretti a fare sesso con gli occupanti. Ad esempio, nel villaggio di Andriivka (il più remoto della regione di Kiev, con 300 case), i russi hanno prima danneggiato la metà delle case, poi hanno violentato quasi tutte le donne, dalle ragazzine alle 70enni. Hanno bloccato le connessioni telefoniche e Internet, portando via tutti i cellulari. Hanno costretto gli uomini a togliersi i vestiti, stringendoli e costringendoli a stare nudi al freddo e al gelo mentre violentavano le loro mogli o sorelle. A volte accadeva in presenza di bambini”.

La testimonianza dalla Caritas Ucraina

Ambasciatore Trott: fondamentale il ruolo dei leader religiosi

“Dall’Ucraina l’appello è alla comunità internazionale e a ciascuno di noi”, ha rilevato Christopher Trott, Ambasciatore della Gran Bretagna presso la Santa Sede, il quale ha detto chiaramente che “le barbare azioni della Russia devono essere indagate e i responsabili devono risponderne”, perché di crimine di guerra si tratta. Anch’egli si è soffermato sull’impatto psicologico, sul peso dello stigma, e sul fatto che la violenza sessuale legata ai conflitti può compromettere la riduzione della povertà, la resilienza e la ripresa dalle crisi. È un tema su cui il governo britannico è molto impegnato, ha ricordato, tanto che il Regno Unito ha varato un finanziamento di 12,5 milioni di sterline (14,8 milioni di euro) per i prossimi tre anni da impiegare in questo ambito. Ha citato la recente “conferenza di Londra” che ha visto anche il lancio del cosiddetto “Codice Murad” (dal nome di Nadia Murad, Nobel per la Pace, lei stessa sopravvissuta alla violenza sessuale perpetrata da Daesh in Iraq) il quale stabilisce come raccogliere informazioni dai sopravvissuti in modo sicuro ed efficace. Inoltre, l’Ambasciatore ha esortato i leader religiosi a proseguire la loro opera di sensibilizzazione perché il loro ruolo è determinante: possono per esempio “smantellare le dannose interpretazioni errate dei testi religiosi utilizzate per giustificare la violenza sessuale nei conflitti”. A questo proposito ha incoraggiato i capi religiosi a firmare la Dichiarazione della Conferenza ministeriale internazionale sulla libertà di religione o di credo (Londra, 2022) e a metterla in pratica all’interno delle loro comunità. 

Ruffini: denunciare il male, trasformarlo con la forza del bene

Trott ha definito come “incredibilmente potenti” le dichiarazioni di Papa Francesco nel suo Viaggio in Repubblica Democratica del Congo. E proprio ampie citazioni del Papa in Africa, così come le parole di alcune delle vittime di atroci violenze subite nei due Paesi visitati dal Pontefice, sono state riprese dal Prefetto Paolo Ruffini. Ha ricordato la sua commozione ascoltando la dolorosa testimonianza di Mukumbi Kamala a Kinshasa, quella di Emelda M’karhungulu del villaggio di Bugobe. “Quello che so è che il loro grido non può rimanere inascoltato”, ha affermato. “Dovremmo rispondere come ha fatto il Papa a Kinshasa: ‘No alla violenza. E no alla rassegnazione, che ci rende complici, parte del male; che non contempla la possibilità di cambiare'”. Ruffini ha invitato ad “assumerci la nostra responsabilità per riprendere un cammino di bontà. È importante ritrovare la forza di chi vede, di chi sa vedere il male, di chi lo sa distinguere, di chi lo sa denunciare, di chi lo assume e lo trasforma con la forza del bene”. Il Prefetto ammette che quando diciamo ‘guerra’, teniamo conto solo dei confini geografici, non di quelli dei corpi violati. E cita alcuni dati: quelli delle Nazioni Unite che hanno verificato 3.293 casi di violenza sessuale legata ai conflitti nel 2021, 800 in più rispetto al 2020, in 18 Paesi; quelli di Amnesty International Francia, nel 2021 44 milioni di donne e ragazze sono state sfollate con la forza all’interno del proprio Paese, esponendole potenzialmente alla violenza; quelli dell’ONG Gynécologie Sans Frontières, secondo cui la maggior parte delle donne accolte in Europa ha subito violenza sessuale. “Questa violenza – scandisce – che non ha cultura, né religione, né confini, deve essere condannata. Deve essere combattuta, deve essere sconfitta”.

L’Ambasciatore britannico Trott, Suor Reis, il Prefetto Ruffini

La responsabilità dei media

Tra i partecipanti all’incontro anche Andrea Atzori, capo Relazioni internazionali di Medici per l’Africa Cuamm. Il suo contributo ha insistito sulla cronicità della condizione di coloro che non ha protezione. In regioni come quella etiopica, sud sudanese, del Mozambico, del Centrafrica non si tratta di situazioni emergenziali. Ha richiamato sulla necessità di un sistema integrato che va potenziato coordinando Chiesa locale, attività dei missionari, società civile e supporto delle ong. Anche la giornalista Elisabetta Piqué – corrispondente de La Naciòn, di rientro da una lunga permanenza in Ucraina – è intervenuta ribadendo che cruciale è il ruolo degli operatori dell’informazione, considerando anche il problema, non trascurabile, di distinguere le fake news in conflitti dove la propoganda ha un forte gioco. A chiudere la conferenza Maria Lía Zervino, presidente dell’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche: dobbiamo interiorizzare in silenzio quanto abbiamo avuto il privilegio di ascoltare, ha chiosato, e non smettere di esserne interpellati.

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