Gennaro Attrice, una condanna a 26 anni che terminerà nel 2028, oggi è in affidamento. Fino a qualche mese fa era detenuto nella casa circondariale di Matera, dove la sua storia è tra le prime a essere protagonista del nuovo giornale “S-catenati, oltre l’errore”, promosso dall’associazione di volontariato penitenziario Disma
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Gennaro Attrice nasce e cresce ad Arzano, nella periferia nord di Napoli, conosce da vicino la delinquenza e inizia presto a praticare l’illegalità: vende sigarette di contrabbando, “ma solo per aiutare mamma che per vivere vendeva candeggina e detersivi, mentre papà lavorava in un negozio a Forcella”. I soldi però non bastano, con sei figli, così i suoi genitori decidono di affidarlo a due signore che figli non ne hanno: “Con loro sono cresciuto in una casa vera, a Napoli, ma quello che vedevo intorno, con scippi continui e vecchiette che venivano trascinate dagli scippatori sull’asfalto mi riempiva di rabbia, così ho deciso di diventare poliziotto”.
Una brillante carriera davanti a sé
In polizia Gennaro si mette subito in luce: paracadutista, sommozzatore, esperto di guida veloce, vince una gara dopo l’altra e viene assegnato ai Nocs, il Nucleo operativo centrale di sicurezza, con cui partecipa a operazioni molto delicate e pericolose, ma che regalano anche molte soddisfazioni. Poi, però, negli anni Novanta, pian piano le cose cambiano e dalle operazioni adrenaliniche Gennaro passa a fare la scorta alle mogli dei politici. È quello il momento in cui prendono il sopravvento rabbia e delusione, uno stato di fragilità che apre la strada alla cocaina.
Sempre più giù
Quando lo trovano con diverse dosi di polvere bianca, Gennaro viene buttato fuori dalla polizia, anche perché decide di non patteggiare. È l’inizio di una vita fatta di espedienti, di lavoretti e di droga. Entra ed esce dal carcere, fino alla condanna più grande, quella per omicidio. “Quella schifezza mi aveva scombussolato il cervello – racconta oggi a Radio Vaticana-Vatican News – mi faceva vedere le cose contorte, una realtà falsata, mentre per vedere le cose come stanno realmente sono dovuto entrare in carcere. Lì ho scoperto cos’è la vita”.
Il carcere come rinascita, ma non subito
In carcere Gennaro torna a intraprendere la lotta contro i prepotenti, ma interpretandola a modo suo, così non ottiene permessi, né giorni premio, la sua non è esattamente una buona condotta. Poi arriva il 23 giugno 2010. “Mio figlio resta vittima di un incidente in moto, lui che era pulito, un gran lavoratore, che aveva aperto una pizzeria tutto da solo. In realtà è morto il 21, ma me l’hanno detto due giorni dopo per paura della mia reazione”, racconta con le lacrime agli occhi. In realtà la sua reazione sarà sorprendente. “Ho fatto esattamente l’opposto di quello che farebbero tutti, disperandosi e lasciandosi andare oppure diventando ancora più cattivi – riflette – amavo mio figlio, era tutto per me e sapevo di essere stato per lui un eroe all’epoca in cui lavoravo in polizia, perciò a quel punto non potevo distruggermi, lui non avrebbe voluto: dovevo tornare a essere quell’eroe”.
Un nuovo inizio
Grazie anche al cappellano e a un brigadiere che lo obbliga a lavorare come scopino – Gennaro in carcere si era sempre rifiutato – pian piano torna in carreggiata, trova una sbarra e inizia a fare trazioni, si rimette in forma, rifiuta gli antipsicotici che gli danno, perché vuole farcela da solo. Per suo figlio, perché da lassù possa essere ancora orgoglioso di lui. “Un giorno un altro detenuto mi ha detto: te la devi abbracciare questa croce. E così ho fatto, ho sofferto tanto e soffro ancora, ma mi hanno aiutato in tanti: gli altri reclusi, gli agenti, tutti. Si dice che il carcere rovina la gente, ma io lì dentro sono diventato una persona migliore, anche se ho visto persone rovinarsi per sempre, dipende da come lo vivi”.
Oggi e domani
Gennaro non pensa al futuro, per adesso, ma solo al presente che per lui è fatto di lavoro, tanto lavoro. Anche per non pensare al dolore. E poi c’è il passato, quel carcere che almeno fisicamente si è lasciato alle spalle, perché ora è a casa in affidamento, e che per lui è stato un momento di riabilitazione molto forte, un momento lungo 26 anni che ancora non si è concluso, per lui il fine pena arriverà nel 2028. “Tutti dovrebbero andare in carcere per capire come ci si deve comportare fuori, nella società – spiega – i detenuti, tra loro, dentro, sono più umani, collaborano, si aiutano. E poi ci sono tanti poveri, perciò si condivide tutto, non si butta nulla, si aggiusta tutto”. Ma soprattutto si aggiustano vite, perché questa – Costituzione docet –del carcere è la funzione primaria.