Domitia Caramazza – Città del Vaticano
“Sai quante volte me lo sono domandato quando ero ragazzina: – ma Dio dove sta? Ma per chi è questo Dio? – Poi, nel crescere, ho capito che Dio c’era. Ero io cieca…”. Consuelo, trentotto anni, si racconta e si confida con estrema schiettezza e spiazzante libertà, mentre giriamo in macchina per la periferia romana di Tor Bella Monaca, l’inferno nel quale è nata e cresciuta. Un contesto di morte “privo di valori”, nel quale ha generosamente accettato di tornare, dopo quattordici anni, solo ed esclusivamente per testimoniare che la risurrezione non è un miraggio. “Qua cresci con la rabbia, Domì – il suo tono di voce e i suoi occhi, chiarissimi, rendono evidente quel sentimento – Cresci arrabbiato, perché vedi il male ovunque vai…”. Consuelo fa riferimento a “situazioni promiscue, prostituzione e droga… qui è tutta una grande zona di spaccio, ovunque vai. Potremmo tornare a casa con la cocaina, anche adesso…”. Non scendiamo dalla macchina e mi spiega il motivo: “Non mi sento più parte di questa realtà e di quella vita”. Arrivate sotto casa sua, parla di “un’infanzia un po’ rubata…”.
Parole che suonano paradossale sintesi di un’infanzia con una madre cocainomane, un padre spacciatore, ucciso per una resa di conti, e un patrigno violento. Consuelo è poco più che una bambina quando inizia a pippare cocaina con la madre e si prostituisce per comprare la droga. A sedici anni rimane in cinta. Tiene la figlia, ma la affida agli assistenti sociali. A vent’ anni è reclusa nel carcere di Rebibbia, dove scopre di avere l’Hiv. Uscita di prigione, ricomincia a prostituirsi e a drogarsi fino a rischiare di morire di overdose, per strada… “Questa è via dell’Archeologia, Domì, a me le suore mi hanno trovato su una panchina, qua… mi chiesero come stavo. Dissi: -sorella, aiutami. Era una settimana che non dormivo. Mi stavo a buca’ di brutto proprio… però qualcosa di grande è avvenuto perché ho chiesto un aiuto, col cuore, a mia madre – morta quando lei aveva 18 anni – e al Signore. Ero disperata”. Quelle due suore, rimaste volutamente nell’anonimato, la mettono in contatto con l’allora parroco di S. Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca, don Paolo Lojudice – l’attuale cardinale arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino – che non si limita ad aiutarla economicamente e a portarle personalmente la spesa a casa, ma la convince a cambiare vita.
“Don Paolo – racconta commossa Consuelo – mi ha aiutato soprattutto a credere che potevo stare bene, non mi ha aiutato solo a livello economico. Don Paolo mi ha dato una speranza! È grazie a lui che ho conosciuto padre Matteo e la Comunità”. La speranza di essere rigenerata dall’amore si è realizzata nell’accoglienza incondizionata e gratuita di padre Matteo Tagliaferri, fondatore della comunità In Dialogo, a Trivigliano (FR). Quando la incontra, padre Matteo le fa un’unica domanda: “Come stai?”…
Oggi sono tre anni che Consuelo è “pulita” e lavora, ma con drammatica ironia mi dice: “Sei arrivata che stavo male e sei tornata che sto peggio: c’ho un tumore. Devono asportarmi l’utero e fare una sacchetta intestinale. C’ho paura? Un po’ sì, ma sicuramente la strada giusta non è quella di andasse a ridroga’, ma è continuare a credere che si può vivere bene e che si può morire da lucidi. Ecco è questo il mio sogno: morire lucida. Non voglio sentire più quel senso di abisso, di male, l’assenza di emozioni che ti fa chiedere se sei viva”. Ha un tatuaggio sul braccio sinistro: l’Immacolata che schiaccia la testa al serpente: “il bene che schiaccia il male. Per non dimenticare tutto il male fatto… e il bene ricevuto… L’ho fatto pensando alla Comunità che è il bene che non c’ho avuto prima, e al male che ho fatto. Ne ho fatto tanto di male, Domì”.
Mi commuove e sussurro: – Ma quanto bene avevi conosciuto? – Consuelo sdrammatizza con la sua usuale e vivace ironia: “Tutte le cose le fai così? Da sentisse male! Guarda, sembra che va molto meglio mò che prima. Sto dando un senso alla vita. La comunità lascia nel cuore la speranza e padre Matteo è lo sguardo de Dio”. Sull’altro braccio ha tatuato l’immagine di Gesù Misericordioso e con spiazzante serenità mi sorride, dicendo: “L’unica strada è credere”. Riconosco la sua fede più grande della mia.