Chiesa Cattolica – Italiana

La Somalia nella morsa delle crisi politica e umanitaria

Francesca Sabatinelli e Alessandro Guarasci – Città del Vaticano

La Somalia affonda in una nuova crisi politica. Il Paese, già devastato da una profonda tragedia umanitaria, minato dalla violenza dei gruppi jihadisti, come quello di Al-Shabaab, legato ad Al Qaeda, affronta in queste settimane la forte tensione tra il presidente somalo, Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo, ed il premier del Paese, Mohamed Hussein Roble, sospeso dai suoi poteri dal presidente, il 27 dicembre scorso, per un presunto caso di corruzione. 

Le elezioni rinviate

Il retroscena è l’annullamento del voto previsto il 10 ottobre scorso e che già aveva subito diversi rinvii. Il mandato di Farmaajo, scaduto l’8 febbraio scorso, era stato esteso di due anni dalla Camera bassa, una decisione che però era stata respinta dal Senato, perché ritenuta incostituzionale per l’assenza della approvazione di entrambe le camere. Di qui lo scoppio della grave crisi politica, con gli scontri del 25 aprile scorso tra opposte fazioni dell’esercito con un bilancio di una decina di morti, la maggior parte dei quali militari. Alla fine di aprile Farmaajo aveva rinunciato a prolungare il suo mandato e, quindi, affidato a Roble l’incarico di guidare la preparazione al voto, finora però sempre rimandato, fino all’ennesima crisi, quella delle ultime settimane.

La comunità internazionale 

Roble e l’opposizione accusano Farmaajo di aver tentato un colpo di stato, con la rimozione del premier e con il recente pesante dispiegamento militare a Mogadiscio. Il Paese è così scivolato in una nuova crisi politica che ha sollevato preoccupazioni internazionali. Nazioni Unite, Unione Africana, Unione europea, così come gli Stati Uniti, chiedono una soluzione basata sul dialogo e di evitare qualsiasi provocazione o uso della forza che potrebbe minare la pace e la stabilità.

La violenza jihadista

In questa difficile situazione, continuano gli attacchi del gruppo Al- Shabaab, facilitato, a detta di molti, dalla crisi e dallo stallo elettorale. Ad oggi gli jihadisti, nel 2011 cacciati dalla capitale dall’Unione africana, controllano ancora ampie zone rurali e compiono regolarmente attacchi a Mogadiscio. Di pochi giorni fa l’aggressione nella regione costiera di Lamu, in Kenya, al confine con la Somalia, dove sono rimaste uccise 6 persone. Purtroppo, è l’amara riflessione di Giuseppe Cavallini, direttore della rivista Nigrizia, mensile dei missionari comboniani dedicata al continente africano e agli africani nel mondo, “non c’è assolutamente da sperare che le cose si risolvano facilmente, pare che si stia andando verso una nuova spirale di violenza”. Il timore di Cavallini è che questa contrapposizione tra le forze del presidente e del premier finisca di nuovo “per dare la voce ai militari” che di fatto, dalla Somalia, non se ne sono mai andati.

Ascolta l’intervista con Giuseppe Cavallini

Pandemia, siccità e malnutrizione

La grande speranza di molti, “lo era anche per noi di Nigrizia”, precisa ancora Cavallini, era che in Somalia dopo tanto soffrire si potesse iniziare a parlare di un abbozzo di società democratica, purtroppo però i fatti dimostrano il contrario. “La situazione – continua il direttore di Nigrizia – sta degenerando e a tutto questo si associa la violenza di Al-Shabaab che, anche durante il 2021, ha continuato a compiere attentati in tutto il Paese, capitale compresa”. A tutto questo si aggiungono poi la questione della pandemia, che non è stata assolutamente affrontata; la siccità nel sud, sempre più catastrofica con centinaia di migliaia di bambini che rischiano di morire di fame; le sistematiche invasioni di cavallette che portano disastri; i due milioni e mezzo di sfollati interni e il milione di rifugiati circa che si trova nei Paesi limitrofi: Etiopia, Eritrea, Kenya.

Il campo di Dadaab

I milioni di persone che lasciano le loro case in Somalia lo fanno per sfuggire alle carestie, alla povertà, alla violenza degli jihadisti. Uno dei campi che accoglie i somali in fuga è quello di Dadaab, in Kenya, al confine con la Somalia, considerato l’insediamento di rifugiati più grande al mondo, aperto nel 1991 per accogliere il flusso i somali in fuga dalla guerra civile. Oggi si tratta di tre campi che ospitano circa 218mila persone, ma che in questi anni sono addirittura arrivate ad essere 330 mila. In Somalia non c’è soltanto un problema di instabilità politica, spiega Luciano Centonze, della ong Cefa, presente nel campo, “c’è un problema di movimenti di popolazione dovuti alle crisi ambientali, quindi profughi interni che si spostano verso altre zone del Paese, e che creano una pressione non indifferente dal punto di vista della convivenza e andando a creare necessità di cibo in aree che sicuramente non sono fortunate, nel nord verso le zone del Puntland e del Somaliland”. Accanto ai movimenti interni naturalmente ci sono quelli verso l’esterno, in uscita dal Paese, soprattutto verso il confine con il Kenya, verso il campo di Dadaab e verso le rotte migratorie,che attraversano il Sahel per spostarsi verso l’Europa.

Ascolta l’intervista con Luciano Centonze

La crisi umanitaria nel 2022

Chi vive nei campi deve purtroppo anche sopportare pesanti ricadute sulla salute. La più grave delle quali, spiega ancora Centonze, è creata “dall’insicurezza alimentare. Ci sono grandi problemi di di malnutrizione, perché i sempre più frequenti cambiamenti climatici e la siccità mettono a rischio l’accesso al cibo. Le condizioni generali sanitarie non sono ideali per cui ogni tanto esplodono epidemie di colera, non ultimo poi, ovviamente, la pandemia di covid che, in realtà, non è ancora chiaro che effetti abbia avuto nel Paese, poiché la capacità di verifica dei contagi è molto limitata”. Su tutto però resta il problema della denutrizione, che colpisce milioni di persone, soprattutto bambini che stanno morendo o di fame o per mancanza di acqua. La siccità, dunque, sta aggravando una crisi che si protrae ormai da anni e che rischia, nel 2022, di far aumentare del 30% il numero di persone che avranno bisogno di assistenza umanitaria, facendo passare gli attuali 5,9 milioni a 7,7.

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