Di Adriano Roccucci
Mikhail Sergeevič Gorbaciov – morto ieri all’età di 91 anni – è stato protagonista di rilevanza assoluta dei processi politici globali in un passaggio storico decisivo, quello della fine della guerra fredda. Secondo il suo biografo, William Taubman, è stato «un visionario che ha cambiato il suo paese e il mondo». Un visionario romantico.
L’opzione per il dialogo e la persuasione come strumenti della politica ha caratterizzato la sua azione, nei successi e nei fallimenti. Gorbaciov pensava che la perestrojka dovesse condurre a un nuovo ordine globale sulla base della cooperazione e della non violenza.
A Roma, il 30 novembre 1989, durante la sua storica visita, Gorbaciov pronunciò in Campidoglio un celeberrimo discorso che costituì un’autorevole dichiarazione sul carattere umanistico della perestrojka, il “nostro ‘Rinascimento’”. Due elementi del lungo e articolato ragionamento spiccarono tra gli altri. La «casa comune europea» era l’orizzonte del nuovo paradigma di sicurezza europea, che a partire dalla perestrojka sovietica avrebbe dovuto condurre al nuovo ordine mondiale. E poi ci fu il riconoscimento che i valori morali sostenuti dalle religioni erano di sostegno alla causa del rinnovamento dell’Unione Sovietica.
Nel quadro di queste aspirazioni ideali e politiche va collocato anche il sorprendente rapporto che maturò tra il segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica e Giovanni Paolo II. Un rapporto non scontato, che anzi nei primi anni della perestrojka stentò a decollare, per il peso di una storia difficile, che nutriva reciproche prudenze e diffidenze. La politica riformatrice di Gorbaciov e il “nuovo pensiero” nelle relazioni internazionali aprirono tuttavia un varco di interesse reciproco.
L’incontro tra Gorbaciov e Giovanni Paolo II, in Vaticano, il 1° dicembre 1989, rappresentò un evento inedito, che ebbe luogo in una Roma pervasa da un clima di grande fermento e partecipazione, nella intuizione di stare assistendo a un evento di grande portata storica. Mai si erano incontrati un papa e un leader sovietico.
Quell’incontro fu l’esito di un percorso, di cui una tappa di grande rilevanza, anche per l’impatto che ebbe su Gorbaciov, fu la conversazione tra questi e il cardinale Casaroli, durante la visita a Mosca di una importante delegazione cattolica voluta da Giovanni Paolo II per partecipare, nel giugno 1988, alle celebrazioni del millennio della conversione della Rus’ di Kiev al cristianesimo bizantino. Il lungo e cordiale colloquio fu un dialogo schietto. Il leader sovietico non nascose di essere fiero sostenitore della “scelta socialista” del popolo sovietico, ma mise in risalto le convergenze con la Santa Sede, soprattutto riguardo al nuovo pensiero della perestrojka nel campo delle relazioni internazionali. Il rinnovamento della politica religiosa e l’impegno per la libertà di coscienza e di religione costituirono l’altro terreno privilegiato di incontro. Era questa una novità sostanziale, perché fino allora i rappresentanti sovietici avevano sistematicamente rifiutato di affrontare con i loro interlocutori vaticani i temi che riguardavano la condizione delle comunità religiose in Unione Sovietica. Gorbaciov sottolineò che, sebbene le visioni del mondo fossero diverse – egli non mancò di dichiararsi ateo –, comune era l’obiettivo della “umanizzazione della vita dell’uomo nella società”. La conversazione con il cardinale lasciò una forte impressione nel leader sovietico. Al suo principale consigliere di politica estera, che rilevava il carattere “filosofico” del dialogo tra i due, Gorbaciov diede l’indicazione di non inviare il verbale della conversazione ai membri del Politbjuro, come era di prassi, perché “sarebbe per loro incomprensibile”.
Il colloquio con Giovanni Paolo II a Roma fu lungo e denso. Gorbaciov espose al Papa il senso della perestrojka e si soffermò sul tema della libertà di coscienza. Occorreva mostrare rispetto nei confronti dell’universo interiore dei credenti, soprattutto degli ortodossi: “quanti di loro infatti sono stati annichiliti!”. E confermò l’impegno alla realizzazione di una legge sulla libertà di coscienza, che sarebbe stata approvata il 1° ottobre 1990. Il dialogo con la Santa Sede giocò un ruolo decisivo per una nuova declinazione del concetto di libertà di coscienza in ambito sovietico, non più complementare alla lotta antireligiosa, ma sempre più associata alla libertà di religione.
Gorbaciov è stato un uomo sovietico, formatosi nell’universo culturale e ideologico del regime comunista, approdato a un idealismo umanista che cercò di coniugare con il patrimonio ideologico del socialismo. Era un politico non privo di tensioni spirituali. Ricordava, in conversazioni che ho avuto con lui nel 2001, un colloquio che la moglie Raissa Maksimovna aveva avuto con il metropolita ortodosso Pitirim. Il prelato ortodosso le aveva detto che nei momenti di difficoltà avrebbe dovuto pregare, anche se Raissa proveniva da una vita da convinta comunista e atea. Quando la moglie morì Gorbaciov fu raggiunto dalla telefonata di un altro vescovo ortodosso che gli suggerì di fare i funerali religiosi per Raissa. Così raccontò quanto avvenne: “Rimasi a lungo in silenzio. Il metropolita mi chiese se ero ancora in linea e se mi sentissi bene; gli dissi che stavo pensando. Pensai a lei, alle sue convinzioni, ricordai la sua conversazione con Pitirim e risposi di sì. Durante il funerale mi sono incontrato per la prima volta con intuizioni che definirei intuizioni della fede. Sì questa è la prima e per adesso l’unica volta in cui le mie convinzioni logiche di umanista sono state messe in dubbio dalla intuizione di qualcosa di altro”. Sono parole che testimoniano niente più che gli interrogativi profondi di una personalità della storia, leader sovietico, comunista, sostenitore del socialismo, e anche politico animato da un idealismo umanista che ha ispirato le sue scelte.