La Santa Sede e la polveriera araba

Vatican News

Vent’anni fa il conflitto in Iraq, su L’Osservatore Romano il racconto dell’impegno vaticano in un Golfo senza pace

di Guglielmo Gallone

«Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani che non hanno avuto quest’esperienza: Mai più la guerra! Dobbiamo fare tutto il possibile».

È domenica 16 marzo 2003. L’appello lanciato[1] da Papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro parte dalla consapevolezza che «i prossimi giorni saranno decisivi per gli esiti della crisi irachena». Il pontefice si rivolge ai «responsabili politici di Baghdad», che «hanno l’urgente dovere di collaborare pienamente con la comunità internazionale per eliminare ogni motivo d’intervento armato». Ancor più, Papa Woytila parla «ai Paesi membri delle Nazioni Unite e in particolare a quelli che compongono il Consiglio di Sicurezza»: «L’uso della forza rappresenta l’ultimo ricorso. C’è ancora tempo per negoziare. C’è ancora spazio per la pace».

Ma la storia andrà diversamente. Il 19 marzo 2003, alle 22:16 ore locali, dallo studio ovale della Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti George Walker Bush si rivolge[2] alla nazione: «In questo momento le forze americane e della coalizione sono impegnate nelle prime fasi delle operazioni militari per disarmare l’Iraq, liberare il suo popolo e difendere il mondo da gravi pericoli».

Alle 5:34 del 20 marzo inizia l’Operation Iraqi Freedom: guidata dal generale americano Tommy Franks, avviata con Regno Unito, Australia, Polonia e curdi iracheni, supportata dalla coalition of the willing[3]. In quarantotto ore Baghdad, Mosul e Kirkuk sono colpite da almeno 1.500 tra missili e bombe.

Dal 1991 al 2001

Antecedente ma necessario per comprendere, il 2 agosto 1990 le truppe irachene occuparono il Kuwait e ne dichiararono l’annessione.

Fino al 1897 il Kuwait era[4] un lembo di terra a nord-ovest del Golfo Persico appartenente all’Impero Ottomano. A seguito di dissidi tra lo sceicco kuwaitiano Mubarak Al Sabah e Costantinopoli, nel 1899 la regione fu posta sotto protettorato britannico. Approfittando dello sbocco commerciale nel Golfo e dei pozzi petroliferi, gli inglesi vi restarono fino al 1961, anno dell’indipendenza kuwaitiana.

Tuttavia, gli iracheni non riconoscevano l’esistenza di un Kuwait autonomo perché lo consideravano da sempre parte del loro territorio. Nel 1990 il presidente Hussein accusò pubblicamente Kuwait ed Emirati Arabi Uniti di «produrre petrolio in eccesso e così di danneggiare l’Iraq»: «Bisogna fare qualcosa di efficace», minacciò.

In seguito alla guerra contro l’Iran (1980-1988), Hussein invase il Kuwait sperando nel sostegno americano e nella «guerra santa per la causa araba». Ma dopo l’ultimatum Onu, tra il 16 e il 17 gennaio 35 Paesi – tra cui Stati Uniti, poi Regno Unito, Francia, Italia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman – avviarono l’operazione Desert Storm per liberare il Kuwait. Il 3 marzo fu firmato il cessate-il-fuoco.

Dopo la sconfitta[5], furono istituite due no fly zones per vietare agli aerei nazionali di sorvolare i territori abitati da sciiti (a Sud) e curdi (a Nord). L’Onu costrinse Saddam ad accettare le ispezioni dell’Unscom – Commissione speciale per l’Iraq –, che richiese la demolizione delle armi di distruzione di massa, dei missili balistici di gittata superiore ai 150 chilometri e delle armi non convenzionali nei laboratori del regime. Fatta eccezione per i beni umanitari, fu imposto l’embargo commerciale su tutti i prodotti provenienti o diretti in Iraq.

Nel 1998 le Nazioni Unite – attraverso il Segretario generale Kofi Annan – e l’Iraq firmarono il memorandum d’intesa basato sulla risoluzione 1154 che consentiva all’Unscom l’accesso ai siti militari iracheni, inclusi quelli presidenziali. Nella risoluzione veniva precisato che qualsiasi violazione dell’obbligo avrebbe provocato «gravi conseguenze» per Baghdad. Dopo l’ostruzionismo iracheno e il ritiro forzato degli ispettori Onu, gli angloamericani avviarono Desert Fox: tra il 16 e il 21 dicembre una serie di bombardamenti aerei fu scatenata contro obiettivi militari iracheni.

Tutto cambiò l’11 settembre 2001. Identificata la responsabilità di Osama Bin Laden e dell’organizzazione terroristica al-Qaida negli attentati contro il Pentagono e le Torri Gemelle, il consiglio di Sicurezza Onu legittimò la nascita di una forza speciale per l’Afghanistan (ISAF), guidata dalla NATO, che avviò l’operazione militare Enduring Freedom.

Parallelamente, gli Stati Uniti iniziarono a decidere se estendere l’attacco militare all’Iraq. Giovanni Paolo II comprese il rischio. Nel discorso[6] al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 13 gennaio 2003, il Pontefice si riferì, per la prima volta pubblicamente, alle «minacce di una guerra in Iraq, terra dei profeti» dove «le popolazioni sono già estenuate da più di dodici anni di embargo».

2003: perché invadere?

Formalmente, furono due le ragioni principali secondo Washington: Baghdad avrebbe fornito rifugio ai terroristi di al-Qaida e avrebbe avviato programmi per costruire armi di distruzione di massa.

Nel 2002 il dipartimento di Stato americano diffuse un documento[7] in cui sosteneva che l’Iraq fosse interessato ad acquistare 60.000 tubi in alluminio a scopo nucleare. Durante un discorso[8] alle Nazioni Unite, l’allora Segretario di Stato americano Colin Powell mostrò immagini satellitari, mappe, nastri audio, testimonianze e documenti relativi ad «armi di distruzione di massa» per dimostrare che «l’Iraq rappresenta una minaccia» e «il regime di Saddam Hussein non ha fatto nessuno sforzo per il disarmo». A questo punto, Baghdad annunciò di voler aprire al ritorno degli ispettori Onu. Ma Washington disse di no: l’offerta sarebbe stata finalizzata a dividere il Consiglio di sicurezza.

Eppure, sul materiale presentato da Powell sono sorti dubbi. Nel 2004 il “New York Times” indagò[9] sul vero scopo dei tubi in alluminio: «Esperti nucleari della Central Intelligence Agency e due alti funzionari dell’amministrazione Bush dissero allo staff del consigliere per la Sicurezza nazionale di dubitare che i tubi fossero usati a scopo nucleare. Il dipartimento per l’Energia riteneva che i tubi fossero destinati a piccoli razzi di artiglieria». Nonostante ciò, si legge nell’articolo, «la Casa Bianca sposò la controversa teoria del nucleare, sostenuta per la prima volta da un analista junior della CIA» perché[10] «la decisione sulla minaccia irachena era già stata presa. L’unica domanda era se la CIA avesse le carte in regola per convincere il pubblico che la minaccia giustificava la guerra».

Nel 2009 il primo ministro britannico Gordon Brown annunciò l’istituzione della “Iraq Inquire” per indagare sul ruolo del Regno Unito nella guerra. Affidato a Sr John Chilcot, il 6 luglio 2016 i documenti[11] furono resi pubblici: «Abbiamo concluso – osservò Chilcot – che il Regno Unito ha scelto di unirsi all’invasione dell’Iraq prima che le opzioni pacifiche per il disarmo fossero esaurite. L’azione militare non era l’ultima risorsa. L’allora primo ministro Tony Blair ha fatto troppo affidamento sulle proprie convinzioni. I servizi segreti inglesi hanno prodotto informazioni errate sulle presunte armi di distruzioni di massa di Saddam».

Colin Powell, in un’intervista[12] ad “Al Jazeera”, ammise come «molte fonti dell’intelligence erano sbagliate»: «Ho compreso le conseguenze di quel fallimento e sono dispiaciuto», ma «io non ho inventato niente, ho tenuto i miei discorsi sulla base di una stima dell’intelligence fornita al Congresso». Nel 2005 Powell definì il suo discorso alle Nazioni Unite «una macchia».

Insomma, in realtà gli Stati Uniti nel 2003 individuarono nel Medio Oriente e nel Golfo un fronte caldo quanto strategico. La guerra in Afghanistan, l’Iran, le tensioni tra israeliani e palestinesi, la questione sociale in Libano, l’enigma siriano, 15 dei 19 terroristi responsabili degli attacchi dell’11 settembre provenienti dall’Arabia Saudita, le novità turche. Controllare l’Iraq significava garantire presenza e stabilità all’intera area. In un periodo di cambiamenti: dall’integrazione europea all’ingresso della Cina nell’organizzazione mondiale del Commercio fino alle crisi di Giappone e Russia.

Quello che Washington definiva l’«asse del male» – l’insieme di Paesi composto da Iraq, Corea del Nord e Iran –, la lotta al terrorismo e la minaccia del nucleare non furono solo modi per sensibilizzare la popolazione, ma permisero a Bush di inaugurare il “diritto all’emergenza” attraverso lo “Usa Patriot Act” e l’”Office of Homeland security”. Dichiarata l’emergenza, la sicurezza nazionale passò più marcatamente nelle mani del presidente in qualità di capo delle Forze Armate.

La reazione popolare fu positiva, come spesso accade in tempi di guerra negli Stati Uniti. Il 72 per cento degli intervistati in un sondaggio[13] si dichiararono favorevoli alla guerra in Iraq e approvarono l’amministrazione Bush.

Intanto, da Roma l’appello per la pace diventava forte. Il 15 febbraio in oltre seicento città di tutto il mondo si tennero manifestazioni per la pace e la più partecipata fu quella nella capitale d’Italia con tre milioni di persone. Giovanni Paolo II dedicò il Mercoledì delle Ceneri alla preghiera e al digiuno «per la causa della pace». In tre settimane il Papa incontrò personalità diplomatiche provenienti da più parti del mondo e con diverse opinioni: dal tedesco Joschka Fischer all’inglese Tony Blair, dal Segretario Onu Kofi Annan allo spagnolo José Maria Aznar, fino a Seyyed Mohammed Reza Khatami, presidente dell’Iran. Il cardinale Roger Etchegaray fu inviato a Baghdad e il cardinale Pio Laghi a Washington: i rappresentanti del Papa tentarono in ogni modo di convincere Saddam e il presidente Usa a negoziare.

Le dimensioni del conflitto

L’operazione armata guidata dagli Stati Uniti non fu autorizzata dal consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dal punto di vista del diritto internazionale[14], gli Usa – spalleggiati da Regno Unito e Spagna in sede Onu – fecero ricorso al paragrafo 13 della risoluzione 1441 (2002), alle risoluzioni 678 e 687, dove si menzionavano le gravi conseguenze nel caso in cui l’Iraq avesse continuato a violare gli obblighi relativi al disarmo e dove, secondo l’interpretazione americana, si legittimava l’intervento militare. Contrarie Germania, Francia e Russia che presentarono, invano, una nuova risoluzione. Solo nel 2003 il consiglio di Sicurezza riconobbe l’Autorità provvisoria della coalizione dei Volenterosi e chiese agli Stati di aiutare l’Iraq a dotarsi di un governo democratico.

Di qui, la dimensione internazionale. La Francia di Jacques Chirac e la Germania del cancelliere Gerhard Schröder non parteciparono al conflitto. Per motivi economici – il ruolo dell’Iraq nella fornitura di petrolio – e religiosi – la Francia ospita la più grande comunità musulmana d’Europa –, ma anche per ribadire l’autonomia diplomatica di Bruxelles da Washington. I rappresentanti di Francia, Germania e Russia presso le Nazioni Unite – tra cui l’attuale ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – firmarono una lettera per chiedere il «disarmo pacifico dell’Iraq».

Eppure, la linea francotedesca aprì fratture nell’Ue, dove Italia, Spagna, Regno Unito, Danimarca, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Portogallo erano favorevoli all’azione americana. Anche la Turchia si oppose al dispiegamento di oltre 60.000 militari americani sul suolo nazionale, nonostante lo sforzo dell’allora primo ministro Recep Tayyip Erdoğan ad aprire agli Stati Uniti.

Terza dimensione è quella bellica. In neanche cinque settimane l’Iraq fu dominato dalla “Coalizione dei Volenterosi”. Il 9 aprile Baghdad fu conquistata. Il primo maggio la guerra venne dichiarata conclusa, il 23 maggio l’esercito iracheno venne sciolto e il 14 dicembre Saddam Hussein fu catturato e messo sotto accusa per gli eccidi compiuti.

Nel 2005 si contano oltre cento battaglioni e unità di polizia irachene per un totale di 169.000 uomini. Capaci di dare informazioni dettagliate e, soprattutto, usati per non far correre rischi agli americani. Reclutare significa convincere. E, per gli americani, non fu semplice perché non riuscirono a garantire acqua, elettricità e accesso alle infrastrutture. Piuttosto, la smobilitazione dell’esercito e il vuoto politico alimentarono criminalità e disoccupazione. Nel 2004 furono rivelati gli abusi dei soldati americani commessi sui prigionieri iracheni ad Abu Grahib.

Bisogna poi considerare la dimensione geopolitica di un conflitto globale ma locale. L’Iraq di Saddam, i talebani curdi, i sunniti di Al-Qaida e dell’IS, i ribelli sciiti del Mahdi, i Khazali, i Pasdaran e i Quds. Tutti con territori di appartenenza e leader di riferimento. Gli sciiti a sud nella città di Bassora, al centro con i luoghi sacri di Nağaf e Karbalā’ e dentro la Sadr City di Baghdad con le milizie di Muqtadà al-Ṣadr.

Lost in Iraq

L’impiccagione pubblica di Saddam Hussein e la caccia ad al-Zarqawi furono azioni mirate, anche, ad alimentare un consenso pubblico che vacillava. Se il primo anno si concluse con l’attentato di Nassirya – 28 morti di cui 19 soldati appartenenti alla missione italiana Antica Babilonia –, nella primavera del 2004 al-Qaida colpì Baghdad e Karbala uccidendo centinaia di persone. Il video in cui i terroristi iracheni bruciano e impiccano quattro americani fece il giro del mondo. Il 2005 fu l’anno elettorale in Iraq, ma la battaglia per Falluja in cui caddero 38 soldati americani scosse il mondo. Le prime stime sui morti civili superarono il migliaio.

Bush – riconfermato per il secondo mandato – inaugurò la «nuova via in Iraq». Gli Stati Uniti avrebbero impegnato più soldati per liberare il Paese e addestrare le milizie locali. Le redini delle province di Anbar e di Bassora furono cedute da americani e inglesi agli iracheni. Mentre la guerra civile divampava – il 14 agosto a Kahtaniya 800 civili furono uccisi –, il Pentagono parlò di un calo della violenza in Iraq e il generale David Petraeus pianificò la riduzione delle truppe.

L’operazione venne formalizzata attraverso l’«Accordo sul ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq[15]», firmato il 17 novembre 2008. Esse avrebbero iniziato a ritirarsi da tutti i centri abitati il 30 giugno 2009 e sarebbero uscite dal Paese entro il 31 dicembre 2011. L’accordo avrebbe cessato di esistere e le forze irachene avrebbero avuto la piena responsabilità su ogni provincia.

Per gli americani significava ritirare 145.000 soldati, 40.000 mezzi e 15.000 veicoli corazzati o carri armati. Gli iracheni controllavano 13 delle 18 province con forze di sicurezza di circa 250 mila soldati e 380 mila poliziotti. In base allo «Strategic Framework Agreement»[16], gli Usa avrebbero continuato ad addestrare e armare le forze di sicurezza, tuttavia, «le operazioni condotte nell’ambito di questo accordo dovranno avere il consenso del governo iracheno».

L’Iraq oggi

Simbolo della maggiore autonomia furono le elezioni parlamentari del 7 marzo 2010. Benedetto XVI disse[17] che si trattò di una storica manifestazione del «desiderio di vedere la fine della violenza» e «della scelta verso la democrazia, nonostante i tentativi d’intimidazione da parte di quanti non condividono questa visione». Papa Ratzinger si espresse a favore della «coesistenza pacifica» perché «fin dagli inizi della Chiesa i cristiani sono stati presenti nella terra di Abramo, parte del patrimonio comune di ebraismo, cristianesimo e Islam».

Lo sforzo per il ritiro definitivo delle truppe americane venne compiuto dal presidente Usa Barack Obama. Ma l’Iraq rimase una polveriera. Un Paese instabile, infestato dal terrorismo. Testimone l’insurrezione di al-Qaida e dell’IS contro il governo tra il 2011 e il 2013, con il genocidio degli yazidi a nord dell’Iraq, così come la guerra contro l’IS terminata nel 2017 con l’intervento degli americani.

Nel marzo 2021 arriva in Iraq Papa Francesco. L’incontro con l’ayatollah Ali al-Sistani, la visita ai luoghi di culto, ma anche il ricordo dei «disastri delle guerre, il flagello del terrorismo e i conflitti settari spesso basati su un fondamentalismo che non può accettare la pacifica coesistenza di vari gruppi etnici e religiosi». Un viaggio in un Paese in cui non solo «la morte, la distruzione e le macerie sono tuttora visibili», ma dove pesano le conseguenze della pandemia, il distacco fra élite e popolo, leggi elettorali incompiute, divisioni religiose e incognite di una transizione ecologica che escluderebbe il petrolio dalle fonti di energia.

Resta, più di ogni altra cosa, la speranza espressa dai pontefici in questi decenni di conflitto per l’Iraq, terra dei Due Fiumi. Che il dolore condiviso possa costituire un vincolo profondo, capace di rafforzare la determinazione degli iracheni come dei musulmani e dei cristiani a lavorare per la pace. Anche se ci sono segni di speranza, come documentato da alcune significative testimonianze in occasione del viaggio di Francesco, la via per realizzare tutto ciò rimane ancora lunga.

[1] Angelus 16 marzo 2003, https://bit.ly/3KV6YV1

[2] The Oval Office, «President Bush address the Nation», https://bit.ly/3mn7AZr

[3] La «coalizione dei Volenterosi» è un’espressione usata dalla presidenza Bush per riferirsi ai Paesi che sostennero l’invasione dell’Iraq e la successiva presenza militare. Era composta da 48 Paesi, tra cui Corea del Sud, Estonia, Eritrea, Georgia, Giappone, Italia, Paesi Bassi, Turchia, Spagna.

[4] J. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Milano 1998, LED, pp 125-127

[5] Emiliani M., «Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991», La Terza, 2019, Bari; pag. 429

[6] «Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede», 13/1/2003, https://bit.ly/3moMNom

[7] United States Department of States, «Unclassified – 200113962», https://bit.ly/3KZb9zh

[8] The American Presidency Project, «Address by Secretary of State Colin Powell to the UN Security Council», https://bit.ly/3moILMD

[9] Barstow D. et al, «The nuclear card: The Aluminum Tube Story – A special report; How White House Embraced Suspect Iraq Arms Intelligence», The New York Times, 3/10/2004, https://nyti.ms/41CEUvy

[10] Draper R., «Colin Powell still wants answers», New York Times, 19/10/2021 https://nyti.ms/3IW32Rv

[11] The National Archives, The Iraq inquire, https://bit.ly/3mhyYI6

[12] Tony Harris, «Colin Powell talks to Al Jazeera», Al Jazeera, 11/9/2011 https://bit.ly/3Y8JhvC 

[13] Gallup, Seventy-Two Percent of Americans Support War Against Iraq, 24/3/2003 https://bit.ly/3J53ZIA

[14] S. Marchisio, «L’Onu. Il diritto delle Nazioni Unite», il Mulino, 2000, Bologna; pp 241-242

[15] «Agreement between the United States of America and the Republic of Iraq on the Withdrawal of United States Forces from Iraq and the organization of their activities during their temporary presence in Iraq», 17/11/2008 https://bit.ly/41K0jD7

[16] «Strategic framework agreement for a relationship of friendship and cooperation between the United States of America and the Republic of Iraq», 17/11/2008, https://bit.ly/3JgsEK6

[17] «Discorso del Santo Padre Benedetto XVI a S.E. il signor Habbeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr, nuovo ambasciatore della Repubblica dell’Iraq presso la Santa Sede», 2/7/2010, https://bit.ly/3ZqVFbQ