L’Osservatore Romano
Il predicatore della Casa pontificia ha scelto per quest’anno, com’è noto, il versetto tratto dal Salmo 24, 7 – «Sollevate, porte, i vostri frontali, apritevi, porte antiche, ed entri il re della gloria» – intendendo, ha spiegato, «per le porte da aprire quelle delle virtù teologali: fede, speranza e carità». Del resto, ha aggiunto riferendosi alla seconda di esse, «il tempio di Gerusalemme aveva una porta chiamata “la Porta Bella”» e «il tempio di Dio che è il nostro cuore ha anch’esso una porta “bella”», ovvero «la porta della speranza. È questa la porta che oggi vogliamo cercare di aprire a Cristo che viene».
Per rendersi conto della novità assoluta recata da Cristo in tema di speranza – è stata la premessa del porporato cappuccino – occorre «collocare la rivelazione evangelica sullo sfondo delle credenze antiche sull’aldilà», a proposito delle quali nemmeno l’Antico Testamento aveva risposte da dare. Soltanto «verso la fine di esso si ha qualche affermazione esplicita su una vita dopo la morte. Prima di allora – ha chiarito Cantalamessa – la credenza d’Israele non differiva da quella dei popoli vicini. La morte pone fine per sempre alla vita; si finisce tutti, buoni e cattivi, in una specie di “fossa comune”» e «non diversa è la credenza dominante nel mondo greco-romano contemporaneo del Nuovo Testamento».
Israele però si «distingue dagli altri popoli» – ha aggiunto – perché «ha continuato, nonostante tutto, a credere nella bontà e nell’amore del suo Dio». Certo in alcuni frangenti, ha riconosciuto il predicatore, «l’uomo biblico non ha taciuto il proprio sconcerto di fronte a una sorte che sembrava non fare» distinzioni «tra giusti e peccatori»; ma verso la fine dell’Antico Testamento giunge a maturazione il convincimento che la «sopravvivenza consiste nella risurrezione — corpo e anima — dalla morte (Dan 12, 2-3; 2Macc 7, 9)».
Però è soprattutto con Gesù che questa certezza, «dopo averla annunciata in parabole e detti», si realizza nella sua persona «risorgendo lui stesso da morte». In proposito il cardinale cappuccino ha citato la regina d’Inghilterra Elisabetta ii, che nel rito funebre ha voluto fosse proclamato il noto passo di Paolo ai Corinzi (1 Cor 15, 54-57), con la famosa frase «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?».
Il predicatore ha quindi osservato come manchino «le categorie necessarie per rappresentarci in che cosa consista» la vita eterna con Dio; mentre ad «alcuni mistici è stato dato di sperimentare qualche goccia dell’oceano infinito di gioia che Dio tiene preparato per i suoi».
Dopodiché, lasciando «da parte quello che sarà nell’aldilà», Cantalamessa ha esortato alla riflessione sull’«oggi della nostra vita», perché «riflettere sulla speranza cristiana significa riflettere sul senso ultimo della nostra esistenza». E in proposito ha individuato «una cosa comune a tutti»: ovvero «l’anelito e vivere “bene”». Per Cantalamessa, infatti, «vivere “sempre” non si oppone al vivere “bene”. La speranza della vita eterna è ciò che rende bella, o almeno accettabile, anche la vita presente. Tutti, in questa vita, abbiamo la nostra parte di croce. Ma una cosa è soffrire senza sapere a che scopo, e un’altra soffrire sapendo che “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura” (Rom 8, 18)».
Da qui l’esortazione a rendere ragione della speranza teologale, la quale ha anche «un ruolo importante da svolgere nei confronti della evangelizzazione» e «nel cammino personale di santificazione».
Riguardo al primo aspetto, il cardinale ha preso spunto dalla constatazione che «uno dei fattori determinanti del rapido diffondersi della fede, nei primordi del cristianesimo, fu l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena». Per tale motivo «oggi abbiamo bisogno di una rigenerazione della speranza se vogliamo intraprendere una nuova evangelizzazione. Gli uomini vanno là dove si respira aria di speranza e fuggono dove non» ne «avvertono la presenza». Essa «dà il coraggio ai giovani di formarsi una famiglia o di seguire una vocazione religiosa e sacerdotale, li tiene lontani dalla droga e da altri simili cedimenti alla disperazione».
Con un vantaggio rispetto al passato: quello di non dover «più passare il tempo» a difenderla «dagli attacchi esterni; possiamo quindi fare la cosa più utile e fruttuosa che è quella di proclamarla, di offrirla e di irradiarla nel mondo», dopo che – ha detto a titolo di esempio – da oltre un secolo a questa parte essa è stata l’obiettivo diretto della critica di uomini come Feuerbach, Marx e Nietzsche.
Ora, invece, «la situazione in parte è cambiata» e la speranza non è più da difendere e giustificare «filosoficamente e teologicamente», ma da annunciare, mostrare e donare «a un mondo che ha perso il senso della speranza e sprofonda sempre più in un pessimismo e nichilismo che è il vero “buco nero” dell’universo». Da qui l’invito a «riprendere il moto di speranza avviato dal concilio» Vaticano ii, a «parlare di “gioia e speranza” (Gaudium et spes)» senza timore di sembrare ingenui o di rimanere delusi.
In seconda battuta, inoltre, «la speranza è di aiuto nel cammino personale di santificazione», ha detto ancora il predicatore, visto che «essa diviene, in chi la esercita, il principio del progresso spirituale. Permette di scoprire sempre nuove “possibilità di bene”, sempre qualcosa che si può fare. Non lascia che ci si adagi nella tiepidezza e nell’accidia. E anche quando la situazione dovesse diventare dura all’estremo e tale da sembrare che non c’è proprio più nulla da fare, ecco che la speranza addita ancora un compito: sopportare fino alla fine e non perdere la pazienza, unendoti a Cristo sulla croce».
Ed ecco allora, ha concluso, che «il Natale può essere l’occasione per un sussulto di speranza» alla scuola di due grandi poeti delle virtù teologali: Charles Péguy, il quale «ha scritto che fede, speranza e carità sono tre sorelle, due grandi e una piccina. Vanno per la strada tenendosi per mano: le due grandi, fede e carità, ai lati e la bambina speranza al centro. Tutti, vedendole, pensano che sono le due grandi che trascinano la piccina al centro. Si sbagliano! È lei che trascina tutto. Perché se viene a mancare la speranza, tutto si ferma». E poi Dante Alighieri, il quale descrive la Vergine Maria come «colei che quaggiù “intra i mortali”, è “di speranza fontana vivace”».