MATTEO LUIGI NAPOLITANO
Trasgredire gli ordini superiori muta l’antico adagio latino nel suo contrario: ubi minor maior cessat. Un esempio paradossale di ciò è proprio nelle carte vaticane. Durante la seconda guerra mondiale a mons. Ján Voitaššak, vescovo di Spiš di simpatie naziste, il governo slovacco offre la carica di consigliere di Stato. Per il suo ruolo il vescovo dovrebbe rifiutare; e invece accetta, chiedendo l’assenso di Pio XII solo ex post.
Non è che uno degli episodi consegnatici dal volume Pio XII e gli Ebrei (Milano, Rizzoli, 2021, in libreria da oggi) scritto da Johan Ickx, Direttore dell’Archivio Storico della Sezione Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana. Il volume apre una nuova stagione di studi sul pontificato di Pio XII, con uno spaccato di quello che Ickx chiama Le Bureau (titolo dell’edizione francese del libro), ossia la prima Sezione della Segreteria di Stato responsabile non solo dei rapporti internazionali ma anche, in via sempre più densa e drammatica, delle vicende dei moltissimi ebrei che nel corso della seconda guerra mondiale si rivolsero al Vaticano per ottenere aiuto, sostegno, consiglio e protezione.
Un primo dato è evidente dalle carte: la conversione al cattolicesimo per Hitler e per i suoi emuli non mutava il sangue giudaico; convertirsi per essere considerati “non ariani” non era una garanzia. Il Bureau queste cose le sapeva, e sapeva che la Germania vantava numerose imitazioni. La Slovacchia, per esempio, aveva scelto la strada totalitaria: «Battezzati o no – disse inesorabile il ministro Mach – tutti gli ebrei dovranno andarsene». Le pressioni germaniche inducevano poi gli ungheresi a consegnare ai tedeschi quegli ebrei che cercavano di varcare il confine proprio dalla Slovacchia. I vescovi slovacchi scrissero una denuncia collettiva pienamente appoggiata dal Papa. Ma, anche in questo caso, valeva il contrario dell’antico adagio: «Il guaio è che il presidente della Slovacchia è un sacerdote – scrisse mons. Tardini –. Che la Santa Sede non possa far stare a posto Hitler, tutti lo capiscono. Ma che non possa tener a freno un sacerdote, chi lo può capire?». Ubi minor maior cessat.
Si trattava di situazioni gravissime nelle quali «c’era ben poco che i membri del Bureau potessero fare per punire i rei». Lo vediamo dai dispacci di mons. Burzio, chargé a Bratislava, sui suoi colloqui con il premier Tuka: «Vale la pena che io continui a riferire a Vostra Eminenza il seguito della mia conversazione con un demente?». Le storie narrate in questo libro devono pertanto intendersi come storie di persone in fuga, ma anche come storie di tentativi, compiuti con umane forze e umani limiti, per salvare queste vite in fuga. Si fa così giustizia di alcune superficiali tesi, anche recenti, circa l’antisemitismo della curia di Pio XII.
“Ebrei” è il nome della serie dei documenti racchiusi in 170 posizioni alfabeticamente ordinate, per un totale di circa 2800 casi. Nel Bureau «il cardinale Maglione aveva il comando generale di entrambe le sezioni. Non si può escludere che l’altra sezione disponesse del proprio registro o sistema di archiviazione, il che vorrebbe dire che altri archivi della Santa Sede, come per esempio l’Archivio Apostolico, custodiscano materiale simile riguardante gli ebrei». L’esistenza della Serie “Ebrei”, che Ickx chiama “la lista di Pio XII”, è «la prova tangibile dell’interesse mostrato nei confronti di persone che, a causa delle leggi razziali, non erano considerate comuni cittadini, sia che fossero ebrei o ebrei battezzati». Non è possibile qui citare tutti i “casi ebraici” notificati al Vaticano. Ma si può dire che i documenti mostrano chiaramente, come scrive Ickx, che gli sforzi vaticani erano rivolti «a salvare ogni singolo essere umano, a prescindere dal colore e dal credo». Due episodi assai significativi lo provano, fra quelli enumerati dall’autore del libro.
Il primo è nel capitolo intitolato Breve storia di un pietosissimo caso. Si tratta dei coniugi Oskar e Maria Gerda Ferenczy, cattolici austriaci d’origine ebraica, emigrati dall’Austria dopo l’Anschluss. Essi, con la loro figlia Manon Gertrude, si trasferiscono a Zagabria, assistiti dall’arcivescovo della città, mons. Stepinac. Ma nel 1939 le autorità locali, già vicine al nazismo, respingono tutti gli ebrei stranieri, convertiti o no, verso la frontiera italiana. I Ferenczy vanno ad Abbazia, nella provincia di Fiume. Al colmo della miseria e della disperazione, Maria Gerda scrive a Pio XII una prima lettera in cui gli confessa d’aver venduto la Bibbia per un pezzo di pane, e della fallita ricerca di un passaporto per emigrare. Le carte ci informano che Pio XII lesse personalmente la lettera. Ma come aiutare la donna e la sua famiglia? Lei non aveva manifestato dei desiderata. Mons. Dell’Acqua fu investito del «caso pietosissimo» e il vescovo di Fiume, mons. Camozzo, pregato di interessarsi dei Ferenczy. La situazione peggiorò a fine 1939, quando i Ferenczy rischiarono di essere consegnati alle autorità tedesche e deportati in Polonia. In una seconda lettera al papa, Maria Gerda lo scongiurava di sventare il pericolo, e rinnovava la richiesta d’aiuto per emigrare. Ancora una volta Dell’Acqua fu investito della questione e una seconda volta fu scritto a Camozzo, che misteriosamente non aveva risposto alla prima lettera. Ora gli si ordinava di chiedere alle autorità italiane un permesso di soggiorno prolungato per i Ferenczy. Inspiegabilmente Camozzo tacque ancora. Presentendo la tragedia, Maria Gerda scrisse una terza lettera al papa, rinnovando i suoi appelli. «Dall’Archivio Storico – ci informa Ickx – emerge che il Bureau non smise di seguire il suo caso». La situazione precipitò con l’arresto di Oskar Ferenczy e con la sua traduzione in carcere a Fiume. Apprese queste novità, il Vaticano incaricò Dell’Acqua di preparare una lettera per il gesuita Tacchi Venturi, interlocutore privilegiato delle autorità italiane. Intanto, il 7 agosto la Ferenczy seppe dalla Superiora delle Suore di Nostra Signora di Sion che forse in Vaticano erano disponibili dei visti per il Brasile. Maria Gerda allora pregò per lettera il Papa di ottenerne per la sua famiglia. La cosa andò nuovamente sul tavolo di Dell’Acqua. Nell’emergenza fu intanto inviato ai Ferenczy un sussidio di ottocento lire. Ma spettava all’ambasciata brasiliana presso la Santa Sede l’ultima parola sui visti. Il Bureau intervenne e finalmente, il 19 agosto 1940, il cardinal Maglione poteva annunciare a Maria Gerda Ferenczy che i visti erano stati concessi. Sembrava fatta; senonché, una volta a Rio De Janeiro, fu impedito lo sbarco al capofamiglia Oskar Ferenczy, il cui visto era considerato non valido. Fu il cappellano della nave a telegrafare la notizia al Bureau, chiedendogli d’intervenire. Dalla Santa Sede partì immediatamente un cablogramma confermando alle autorità brasiliane la validità dei visti. Iniziava così per i Ferenczy una nuova vita. Il caso è sintomatico «di come gli ebrei battezzati si ritrovarono letteralmente intrappolati e schiacciati tra le loro due identità» dato che, man mano che le leggi razziali s’inasprivano, «veniva a mancare la distinzione tra ebrei ed ebrei battezzati».
Un altro episodio-simbolo è nel capitolo intitolato Breve storia di un uomo comune e di una bambina di otto anni. L’uomo comune (così amava definirsi) era Mario Finzi, impegnato nella sezione bolognese della Delasem (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei). Nell’agosto del 1942 Finzi scrisse direttamente a Pio XII, chiedendogli d’intervenire con cristiana carità «salvando una povera creatura d’otto anni minacciata dall’odio e dalla ferocia degli uomini». Si trattava di Maja Lang, una bambina jugoslava che aveva un fratello diciassettenne, Wladimir, agli arresti domiciliari in una villa dell’immobiliarista Alfonso Canova, a Sasso Marconi. Wladimir aveva chiesto a Finzi di salvare la sorellina. La famiglia era stata arrestata in Croazia e la piccola, con un permesso ormai a scadenza per stare in Ungheria con una zia, rischiava di essere riaccompagnata al confine croato. Conscio dei rischi che Maja correva, Finzi elaborò un piano che sottopose direttamente al Papa: far sì che la bimba raggiungesse l’Italia per ricongiungersi al fratello Wladimir. Ma per ottenere ciò occorreva che la Santa Sede si muovesse direttamente presso il Ministero degli Esteri italiano, che avrebbe potuto interessare la sua legazione a Budapest. «Santo Padre, io so che non è poco ciò che oso chiederVi – scrisse Finzi a Pio XII – ; ma operare cristianamente in un mondo che in così gran parte è la negazione di Cristo non è impresa facile per gli uomini comuni». Il Vaticano non perse tempo. Ricevute le debite istruzioni, nel gennaio 1943 padre Tacchi Venturi riuscì a ottenere dal Ministero dell’interno italiano il permesso d’ingresso e di soggiorno a Sasso Marconi per la piccola Maja e per i suoi genitori. L’ordine delle autorità italiane sembra giunto in tempo per salvare la vita dell’intera famiglia. Ma a un certo punto le tracce della piccola Maja si perdono. Purtroppo morta nei Lager, stando agli archivi di Yad Vashem. «A ogni modo, scrive Ickx – il suo caso getta luce su una prospettiva interessante», e cioè sul fatto che «il dottor Finzi di Bologna considerasse papa Pio XII l’unica autorità ancora in grado d’intervenire con successo in un caso umanitario così complesso e sorprendente». Mario Finzi, questo giovane «uomo comune» dal cuore d’oro avrebbe conosciuto l’arresto e la deportazione ad Auschwitz, la liberazione e infine la morte precoce per una malattia contratta nel Lager. I Lang sarebbero tornati in Jugoslavia nel 1945, per poi trasferirsi in Israele tre anni dopo. «Insieme agli eroi locali di Sasso Marconi, la cui Memoria è onorata dallo Yad Vashem [Alfonso Canova è “Giusto tra le Nazioni”, ndA], e a un comune ebreo, Mario Finzi, vittima del terrore nazista, Pio XII e il Bureau salvarono una famiglia».
Questo libro è dunque viatico d’una nuova stagione di studi che spazza pregiudizi ideologici passati e recenti e smonta l’idea che Pio XII fosse all’oscuro, e non invece al vertice, di una rete di aiuti in favore di ebrei e di rifugiati assai complessa ma dai contorni nitidi. Un grande passo, insomma, verso quella “democrazia storiografica” da molti auspicata