Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
Se oggi fosse il 5 maggio del 1821, la notizia destinata a riempire le pagine dei giornali arriverebbe da un’isola nell’oceano Atlantico, a quasi duemila chilometri dalla costa dell’Angola. Da questa remota periferia risuonerebbero innanzitutto poche, precise parole: durante il suo esilio sull’isola di Sant’Elena, è morto Napoleone Bonaparte. Duecento anni fa questo annuncio, con i tempi che all’epoca la tecnologia consentiva, fa il giro del mondo e scuote l’opinione pubblica. “Ei fu. Siccome immobile”, scrive Manzoni nel suo “Il 5 maggio”. “Così percossa, attonita la terra al nunzio sta”. Dopo due secoli, il ritratto di Napoleone resta ancora saldamente impresso nella storia dell’Europa e dell’Occidente. Nato nel 1769 ad Ajaccio, in Corsica, da giovane intraprende la carriera militare. A soli 26 anni, gli viene affidato il comando dell’armata francese impegnata nella Campagna d’Italia contro gli austriaci.
Nel 1798 le sue truppe sconfiggono, in Egitto, i mamelucchi nella battaglia delle Piramidi. Nel 1804 viene incoronato imperatore dei francesi. Tra grandi vittorie militari ed epocali sconfitte, al suo nome si lega anche il primo codice giuridico moderno, il Codice civile napoleonico. Gli ultimi anni di vita sono segnati dall’esperienza dell’esilio. Dopo la sconfitta nel 1815 a Waterloo, viene esiliato sull’Isola di Sant’Elena, dove muore il 5 maggio del 1821. Sono dunque passati duecento anni dalla morte del celebre corso. Per il giornalista e storico Sergio Valzania, autore del libro intitolato “Napoleone” e pubblicato da Sellerio Editore, il condottiero francese aveva grandi capacità e intuizioni insieme a difetti e paure.
R. – Napoleone era, come si dice, un grand’uomo: sia grande sia uomo. Era intelligente, aveva una capacità di lavoro sterminata, una memoria incredibile. Aveva anche capacità di sintesi, di cogliere le situazioni. Era un grande tattico militarmente, anche perché capace di capire cosa succede. Aveva intuizioni geniali. Poi era anche un uomo come tutti, con i suoi difetti e con tutta una serie di paure, di egoismi e di limiti anche nel comprendere la strategia generale. Napoleone, a livello politico, non sa bene cosa vuole, a parte il suo desiderio di comandare. E poi c’è l’ambizione del tutto riuscita di “diventare Napoleone”. Lui nasce in una isoletta e da quella isoletta diventa un grande personaggio della storia. E quindi – emulo di Annibale, di Cesare, di Alessandro Magno e di Carlo Magno – voleva rimanere nella memoria storica come un grande e c’è riuscito.
Dunque un uomo con grandi capacità, ma anche con i suoi limiti. Generale, stratega, imperatore, nemico da sconfiggere e da mandare in esilio. Nella vita di Napoleone si intrecciano grandi vittorie e sconfitte e soprattutto l’eco delle battaglie si mescola con la storia e i destini dell’Europa…
R. – Si, è un passaggio importante per la storia europea e per quella del mondo. Siamo alla nascita del grande colonialismo. Siamo all’inizio del “secolo inglese”: con le vittorie di Trafalgar e di Waterloo, l’Inghilterra conquista il potere sul mondo. Questo è il grande evento che ci lascia Napoleone. E in parallelo c’è la nascita del nazionalismo, del nazionalismo sfrenato. Tra l’altro, la figura di Napoleone è una di quelle che interrogano sull’importanza dell’individuo nella storia, della singola personalità nella storia. Lui ha cambiato la storia oppure la storia sarebbe andata avanti nello stesso modo? E se avesse vinto Napoleone a Waterloo, cosa sarebbe successo? Sarebbe cambiato tutto oppure, dopo qualche anno, le cose avrebbero ripreso il corso che conosciamo?
Guardando proprio il corso della storia, quanto l’Europa e il mondo di oggi sono figli delle gesta, non solo militari, di Napoleone?
R. – Sicuramente Napoleone è l’erede della Rivoluzione. Napoleone è un illuminista e per questo non capisce i nuovi sentimenti popolari. Per questo in Spagna è stupito del fatto che gli spagnoli preferiscano essere spagnoli piuttosto che essere governati da illuministi francesi con leggi migliori e un livello di corruzione più basso. È un illuminista e porta questi valori, porta quest’idea dell’uguaglianza fra tutti gli uomini. E dopo che è arrivata quell’idea non si può più tornare indietro. Porta il codice civile che sicuramente ha dei difetti, però è un passo avanti nel sistema giuridico. Addirittura incide nella sistemazione dei cimiteri. Vuole la possibilità di un riscatto per tutti, un sistema di vita più dignitoso: i contadini francesi dopo Napoleone mangiano meglio di prima. È l’affermazione di una serie di valori della Rivoluzione, forse della parte migliore della Rivoluzione.
Ricordiamo ora l’ultimo tratto di vita di Napoleone, sull’isola di Sant’Elena. Quale ritratto emerge, limitandoci a questo periodo?
R. – È in parte la tragedia di un uomo e in parte anche una rappresentazione di sé che Napoleone vuole dare. Napoleone arriva a Sant’Elena con un seguito di 40 persone. È servito, abbastanza riverito. Certo, la sistemazione è molto scomoda: è tagliato fuori dal mondo, però è lì con la piena consapevolezza, molto maggiore rispetto a quelli che lo circondano, di avere raggiunto lo scopo che voleva ottenere. Arrivano i giornali dall’Europa, che parlano malissimo di Napoleone perché i vincitori vogliono avvalorare la “leggenda nera”, vogliono sostenere che sia stato un mostro. Ma Napoleone è tranquillo. E dice: non preoccupatevi, alla fine la mia immagine sarà l’immagine di un grande. E aveva ragione.
Napoleone e Papa Pio VII
La storia di Napoleone si intreccia con quella del pontificato di Papa Pio VII. Dopo l’incoronazione imperiale di Napoleone, avvenuta nel 1804 a Parigi alla presenza del Pontefice, i rapporti tra i due diventano sempre più difficili. La situazione precipita a cominciare dal 1808. Dopo aver invaso, nel 1807, le province marchigiane, il 2 febbraio 1808 le truppe di Napoleone comandate dal generale Miollis occupano Roma. Su Castel Sant’Angelo viene innalzata la bandiera francese. Il 10 giugno del 1809 Papa Pio VII firma il Breve Quum memoranda con il quale scomunica mandanti e fautori della sopraffazione. Il nome di Napoleone viene omesso. Nella notte tra il 5 e il 6 luglio del 1809 soldati e gendarmi agli ordini del generale Radet penetrano a Roma nel Palazzo del Quirinale e arrestano Pio VII. Inizia per il Papa un periodo di prigionia che si snoda tra varie località, tra cui Grenoble e Savona. Solo nel maggio del 1814 può rientrare a Roma.
Di seguito alcuni passaggi tratti dal Breve Quum memoranda (Papa Pio VII, Roma 10 giugno 1809):
“Con l’autorità di Dio onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, chiamiamo a render conto tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’invasione di quest’alma città e del territorio ecclesiastico, e con la sacrilega violazione del patrimonio della Chiesa compiuta dalle truppe francesi… Mentre in verità siamo obbligati a sguainare la spada della severità ecclesiastica, non trascuriamo assolutamente che, per quanto immeritevoli, rappresentiamo in terra Colui il quale, anche quando esercita la giustizia, non si dimentica di essere misericordioso. Perciò ordiniamo e comandiamo, in primo luogo ai Nostri sudditi, e poi a tutti i popoli cristiani, in nome della santa obbedienza, che nessuno ardisca recare danno, pregiudizio, ingiustizia o nocumento a coloro ai quali è diretta la presente lettera, o ai loro beni, diritti o prerogative… Castigando tanto gravi ingiurie arrecate a Dio e alla sua Chiesa, abbiamo soprattutto come obiettivo che si convertano e soffrano con Noi coloro che in questo momento Ci fanno tanto soffrire… Perciò, levando le mani al cielo, nell’umiltà del Nostro cuore, mentre rimettiamo a Dio e nuovamente raccomandiamo la giustissima causa… Lo imploriamo e scongiuriamo affinché, per la Sua intima misericordia, ascolti ed esaudisca le preghiere e gli scongiuri che giorno e notte Gli rivolgiamo per il ravvedimento e la salvezza di tali nemici”.
Anche Papa Francesco ha ricordato pagine di storia legate a Napoleone. Nella lettera del 10 maggio del 2015, in occasione del bicentenario dell’Incoronazione di Nostra Signora di Misericordia, il Pontefice scrive: “In un momento fortemente drammatico della storia dell’Europa, il Papa Pio VII, rapito da Napoleone e imprigionato a Savona, ottenne di potersi recare al Santuario di Nostra Signora di Misericordia e fece voto che, una volta liberato, vi sarebbe tornato per incoronarla; ciò che avvenne il 10 maggio 1815”. “E il 24 dello stesso mese – aggiunge Francesco – istituì la festa di Maria Santissima ‘Aiuto dei cristiani’. In effetti, la Madre della Misericordia è sempre vicina e soccorre tutti i suoi figli che si trovano nel pericolo”.
Napoleone e la fede
Il rapporto dell’imperatore francese con la Chiesa e con il papato, ricorda don Pino Lorizio – teologo della Pontificia Università Lateranense – è stato complesso, caratterizzato da un periodo storico di passaggio.
R. – La figura di Napoleone si colloca tra la Rivoluzione francese e quella che sarà la Restaurazione. Come dice Manzoni, ha cavalcato il passaggio da un secolo all’altro definendo una posizione fondamentale della Francia nella storia d’Europa. Poi successivamente, dopo Waterloo e dopo il suo esilio a Sant’Elena, l’Europa troverà un assetto diverso recuperando l’Ancien Régime.
Parliamo del rapporto di Napoleone con la Chiesa e con il papato…
R. – Un rapporto complesso. Ricordiamo in particolare quel momento nel quale Napoleone volle che Papa Pio VII si recasse nel 1804 a Parigi a incoronarlo. Siamo a quasi mille anni dalla incoronazione di Carlo Magno che invece avvenne a San Pietro. Per alcuni aspetti, questo fatto che il Papa dovesse recarsi nella città dell’imperatore e che il trono dell’imperatore avesse 33 gradini e quello del Papa solo 8, viene visto un po’ come un’umiliazione. Un’umiliazione che Napoleone avrebbe voluto infliggere al romano Pontefice. Però da questa capacità di Pio VII di accettare la realtà con sano realismo nasce un rapporto che non è del tutto negativo da parte di Napoleone. Un rapporto che già precedentemente all’incoronazione era stato sancito con il Concordato.
Torniamo proprio al 1801. Napoleone e Papa Pio VII firmano il Concordato tra Francia e Santa Sede. Pochi anni prima Papa Pio VI era morto in esilio in Francia…
R. – Sì, era morto in esilio. Ma perché è importante questo Concordato? Intanto, c’è un riconoscimento iniziale del fatto che la Rivoluzione francese, che aveva perseguito l’obiettivo di de-cristianizzare la Francia, in ultima analisi non è riuscita in questo suo scopo. Napoleone prende atto di questo, del fatto che c’è stata una resilienza del cattolicesimo in Francia. E prende atto del fatto che la Francia e il popolo francese restano legati alla Chiesa Cattolica con la quale deve comunque fare i conti. Napoleone deve riconoscere la Chiesa e alla Chiesa deve anche riconoscere dei diritti. Il problema di Napoleone è il potere che lo esercita, anche nel Concordato, riservandosi la nomina dei vescovi. Presuli che dovranno essere approvati dal Papa, ma la scelta spetterebbe a lui. L’altro aspetto importante del Concordato è che, nel momento in cui viene firmato, Napoleone riconosce l’autorità del Papa. E quindi mette all’angolo, se non sconfigge del tutto, quelle tendenze di gallicanesimo che volevano la Chiesa di Francia autonoma rispetto all’autorità del romano Pontefice. Quindi la Francia non imbocca la strada che aveva intrapreso l’Inghilterra con lo scisma anglicano.
Veniamo alla vita di Napoleone negli ultimi anni, sull’isola di Sant’Elena. Quale è stato, in base alle fonti storiche, il rapporto di Napoleone con la fede? Si convertì nel suo esilio a Sant’Elena?
R. – Certamente Napoleone rivede e ripercorre la sua vicenda anche dal punto di vista dell’esperienza religiosa. C’è una memoria, che è datata 17 agosto 1816. Ci troviamo durante il primo anno di esilio. In questa memoria Napoleone si esprime così: io ho avuto bisogno di credere e ho anche creduto. E si riferisce, evidentemente, alla sua formazione cattolica tradizionale presente nella sua famiglia di origine. Poi usa un’immagine interessante. Ad un certo punto dice: la mia fede si è inceppata come quando si inceppa un fucile, un cannone. E si è inceppata, aggiunge, perché non ha retto la sfida della ragione. Si tratta, ovviamente, della ragione del secolo dei lumi, cioè di una ragione che attenta alla fede. E allora, nelle ultime righe di questa memoria, Napoleone dice: forse continuerò di nuovo a credere ciecamente; speriamo che Dio mi vuole. Io, scrive Napoleone, non gli oppongo resistenza. Non chiedo di meglio e penso che questo mi darà grande felicità. Di fatto, è un’espressione di speranza. Napoleone, almeno in questo testo, non fa ancora una professione di fede, ma spera di credere. Spera di riuscire a disinnescare ciò che gli impedisce di credere, in modo appunto da poter essere felice.