Chiesa Cattolica – Italiana

La giustizia internazionale per la difesa dei Rohingya

Guglielmo Gallone – Città del Vaticano

I rappresentanti della giunta militare del Myanmar hanno chiesto l’archiviazione del caso che accusa la nazione del sud-est asiatico di genocidio contro la minoranza etnica dei Rohingya. Secondo la difesa, la Corte internazionale di giustizia non avrebbe giurisdizione sul tema. Il confronto tra le parti, iniziato ieri alla sede dell’Aja, sta andando avanti e si è allargato anche ad un’altra questione: chi dovrebbe rappresentare il Myanmar presso la Corte internazionale di giustizia? Oggi non c’è più l’ex presidente Aung San Suu Kyi, vincitrice del premio Nobel per la pace nel 1991, ma la giunta militare che, con un colpo di Stato, è al potere dal primo febbraio 2021. “Siamo lieti che il caso stia andando avanti – hanno dichiarato alcuni rappresentanti delle organizzazioni umanitarie internazionali – ma troviamo profondamente preoccupante che i militari siano autorizzati a comparire davanti alla Corte come rappresentanti della Birmania”. 

La violazione dei diritti dei Rohingya

Le persecuzioni nei confronti dei Rohingya, gruppo etnico di religione islamica presente nella regione birmana di Rakhine, sono iniziate tra il 2016 e il 2017. La repressione militare perpetrata dall’esercito birmano ha costretto circa 700.000 Rohingya a fuggire oltre il confine nel Bangladesh. Dunque, qui è nato il più grande campo profughi al mondo: situato nel distretto di Cox’s Bazar, divisione di Chittagong, si chiama Kutupalong e ospita poco più di mezzo milione di migranti. Di fronte alla disastrosa situazione politica ed umanitaria, le Nazioni Unite hanno avviato una serie di indagini che hanno portato alla scoperta di violazioni dei diritti umani su vasta scala: stupri di gruppo, incendi dolosi, uccisioni extragiudiziali, infanticidi ed esecuzioni sommarie.

L’intervento della Corte internazionale di giustizia

Così, nel 2019, il Gambia ha portato sotto i riflettori della giustizia internazionale il caso dei Rohingya: il governo di Banjul ha sollevato un dossier alla Corte internazionale di giustizia, da cui emerge che l’esercito del Myanmar avrebbe compiuto un genocidio nei confronti della minoranza etnica islamica. Le accuse sono state mosse facendo ricorso ad una serie di mappe, immagini satellitari e fotografiche della campagna militare birmana. Il Gambia ha quindi chiesto alla Corte di esprimersi sul caso. Quest’ultima ha emanato una sentenza provvisoria, con cui ordinava al Myanmar di fare tutto il possibile per prevenire il genocidio contro i Rohingya, in attesa della fine del processo. Inizialmente, era stata la stessa Aung San Suu Kyi a recarsi in tribunale per difendere il Myanmar dalle accuse di omicidio di massa, stupro e distruzione della comunità Rohingya da parte dei suoi militari. Ora l’ex leader birmana è stata sostituita in tribunale dal ministro della cooperazione internazionale della giunta militare, Ko KoHlaing, e dal suo procuratore generale, Thida Oo. I due rappresentanti dell’amministrazione militare sostengono che il caso dovrebbe essere respinto per due motivi. Il primo: la Corte internazionale di giustizia ascolta solo casi tra Stati e la denuncia dei Rohingya è stata presentata dal Gambia per conto di un’organizzazione internazionale. Il secondo motivo: secondo i rappresentanti militari del Myanmar, il Gambia non può portare il caso in tribunale perché non è direttamente collegato agli eventi in Myanmar. La risposta da parte dei legali del Gambia è attesa per mercoledì.

L’intervento dell’Unione Europea

Nel frattempo, ieri si è mossa anche Bruxelles. L’Unione Europea ha imposto nuove sanzioni a ventidue rappresentanti del governo militare del Myanmar, inclusi ministri, membri del Consiglio amministrativo statale, della Commissione elettorale e delle forze armate. Le misure prevedono il congelamento dei beni e il divieto dei viaggi nei confini europei. Si tratta della quarta ondata di misure restrittive imposte da Bruxelles a Naypyidaw in poco più di anno dal colpo di Stato. Attualmente, è stata infatti sospesa l’assistenza finanziaria diretta al governo birmano. Restano poi in vigore l’embargo sulle armi, il divieto di addestramento e cooperazione militare, le restrizioni all’esportazione di tecnologie di comunicazione. Gli interventi dell’Ue sono motivati da una situazione che si è “gravemente deteriorata” da quando i militari birmani sono arrivati al potere.

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