Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Esistono luoghi sconosciuti ai più, eppure tanto preziosi. Strutture, edifici, talvolta piccoli, ma ricchi di luce. In grado di portare speranza, di generare incontri, di respirare quell’atmosfera di casa. A Rebibbia, proprio al centro del carcere, si trova la chiesa del Padre Nostro, il luogo di integrazione principale in un carcere che è diviso in quattro istituti penitenziari, a loro volta suddivisi in vari reparti per motivi di sicurezza o per tipologia di reato. Un nome, quello della chiesa, scelto non a caso.
Per tutti i fratelli
Ogni giorno i detenuti musulmani, ortodossi, protestanti si ritrovano, insieme ai cattolici, in questo punto del penitenziario. Ciascuno si sente libero di pregare secondo la propria religione. La chiesa del Padre Nostro si chiama così proprio per una scelta di dialogo interreligioso, visto che all’interno del carcere non sono presenti altri luoghi di culto. Intitolarla ad un Santo o alla Vergine Maria avrebbe reso meno semplice il progetto di don Spriano: far sì che ciascuno si senta accolto, libero di pregare. Di sperare in un futuro migliore.
Spirito di fratellanza
“Quando nel 1991 sono arrivato a Rebibbia, c’era la possibilità di celebrare nei reparti, in tutti i luoghi dove vivevano i detenuti. Però non c’era un luogo abitudinale in cui andare per una Messa più comunitaria, anche più dignitosa dal punto di vista dell’allocazione. Questa chiesa degli anni ’70 non era mai stata usata, perché non era consentito ai detenuti uscire dai reparti per raggiungerla”. Inizia così il racconto a Vatican News di don Sandro Spriano, per 31 anni, e fino alla scorsa estate, cappellano di Rebibbia. “Abbiamo cominciato a fare gli incontri dei detenuti con i loro familiari nella piazza della chiesa, che si trova al centro di questo spazio e del carcere. Siamo riusciti a poterla usare – ricorda – iniziando a celebrare la domenica la Messa, reparto per reparto. L’idea era di far uscire i detenuti per andare in chiesa, proprio come fa ogni cristiano la domenica, quando esce di casa per andare nella sua parrocchia”.
La scelta del nome
“Questa chiesa – prosegue don Spriano – non aveva un nome, così dopo aver ricostruito l’altare, consacrato dal cardinale vicario Ruini, abbiamo pensato di darle un nome. Erano circa cinque anni che mi trovavo a Rebibbia. Io cercai in tutti i modi di mettere in atto la mia idea, cioè di chiamarla ‘Chiesa del Padre Nostro’ e spiegai che l’intenzione era di far capire che lì c’era un Padre per tutti quei cittadini che vivevano in carcere, nessuno escluso. Per tutti quelli che pensavano a Dio, avevano una fede, fossero cristiani, musulmani o ebrei. Questo non importava”.
Tantissimi i “grazie”
“Nel corso degli anni – racconta don Spriano – tantissimi hanno espresso il loro apprezzamento per questo luogo di culto. Si sentivano un po’ a casa, venire tutti in un luogo per pregare è importante. Quando celebravo, anche con 300 detenuti, nessuno fiatava e questa cosa mi emozionava, ero commosso. A volte faticavo a parlare, davanti a quegli uomini che ascoltavano la Parola e tante persone hanno fatto un vero cammino di fede”. “Quando nel 2015 venne Papa Francesco, lui ascoltò tutte le persone e mi meravigliai di come tutti gli chiedessero una preghiera, una benedizione. Per me – conclude – fu una cosa molto bella, in fondo, pensai, le persone non sono così materialiste come a volte si crede”. Sono numerose le occasioni in cui Francesco, nel corso del suo pontificato, si è recato in visita nelle carceri così come le volte in cui ha parlato dei detenuti.
Ponti di speranza
Nell’udienza del 14 settembre 2019 ai cappellani delle carceri italiane, alla polizia e al personale dell’amministrazione penitenziaria, il Papa ha chiesto di diventare “costruttori di futuro”, di non spegnere la speranza dei detenuti, di essere “ponti” tra il carcere e la società civile. Quindi il suo forte invito a non scoraggiarsi, ma a far fronte alle difficoltà ed alle insufficienze: “Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, è un problema grande che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono – ha affermato in quell’occasione Francesco – la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero”. Di recente, poi, il Papa ha voluto ricordare le tante mamme in fila fuori dalle carceri per vedere il loro figlio detenuto.
L’amore di Dio
Dio è come “un buon padre e una buona madre” che “non smettono mai di amare il loro figlio, per quanto possa sbagliare”. È l’immagine che Papa Francesco ha usato nella catechesi dell’udienza generale di mercoledì 2 dicembre 2020, per far capire il senso profondo della benedizione, connessa strettamente alla speranza e all’amore di Dio per ciascuno, anche per gli “irrecuperabili”. Per tutti. Dio, infatti, ha rimarcato il Papa, “non ha aspettato che ci convertissimo per cominciare ad amarci, ma lo ha fatto molto prima, quando eravamo ancora nel peccato”. Francesco ha ricordato quando, tante volte, ha visto la gente che faceva la fila per entrare in carcere: tante mamme in coda per vedere il proprio figlio detenuto. “Non smettono di amare il figlio e non si vergognano se magari sul bus qualcuno le possa indicare come madri di un carcerato. Forse provano anche vergogna, ma vanno avanti. Per loro è più importante il figlio della vergogna, così noi per Dio siamo più importanti noi che tutti i peccati che noi possiamo fare. Perché Lui è padre, è madre, è amore puro, Lui ci ha benedetto per sempre. E non smetterà mai di benedirci”.