Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Paolo, sulla via che conduce a Damasco, fa un incontro che gli cambia la vita. La storia la conosciamo bene, raccontata negli Atti degli Apostoli con molti particolari (22, 3-16). È mezzogiorno quando una luce molto più sfolgorante di quanto non lo sia il sole a quell’ora appare nel cielo. Paolo viene scaraventato a terra e nello stesso tempo ode la voce del Signore che gli chiede: Saulo Saulo, perché mi perseguiti?
La figurazione più antica
Paolo perde la vista ed è costretto a procedere a tentoni, guidato dai compagni fino a Damasco. Secondo le ricostruzioni degli studiosi l’accaduto si collocherebbe tra il 33 e il 26 d.C .In epoca paleocristiana non ci sono molte figurazioni dell’episodio che invece sarà destinato a diventare popolarissimo in seguito. Un primo accenno, risalente alla fine del IV secolo, si ha nel poeta latino cristiano Prudenzio, che nel Dittochaeon, “Doppio nutrimento” parla di una pittura in una basilica. Non è possibile sapere, però, se alludesse a pitture presenti a Roma o nella sua natia Tarragona. Per avere un’immagine reale, dobbiamo attendere fino alla metà del VI secolo, quando rintracciamo questa figurazione in una miniatura della Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste, pseudonimo di Costantino di Antiochia.
L’originale alessandrino ci è pervenuto in una copia costantinopolitana di IX secolo, conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Al centro l’Apostolo è raffigurato stante, con il libro stretto a sé in una mano mentre l’altra è benedicente; i tratti del volto e il gesto sono tipici e riconoscibili. Ai lati si dispiegano diversi episodi: a destra Anania ammaestra Paolo a Damasco. Sulla sinistra, quella che ci interessa, si vedono l’uno sull’altro due momenti successivi, come scatti fotografici di una scena in movimento: Paolo, mentre cammina verso Damasco con due compagni, è sorpreso da un fulmine rosseggiante che letteralmente sembra colpirlo. I volti e i gesti, con le mani sollevate e il palmo aperto esprimono sorpresa e paura. Ed ecco che un momento dopo, in basso, Paolo è rannicchiato a terra annichilito, privo di difesa, solo.
Manca un elemento tipico dell’iconografia che anzi nel tempo diventa immancabile: il cavallo. Paolo non è stato disarcionato, e in effetti le fonti non menzionano l’animale, ma è stato scaraventato a terra dalla forza d’urto del fulmine. Letteralmente il proverbiale “folgorato sulla via di Damasco”.
Da questo schema iconografico sembra discendere il mosaico della cappella Palatina a Palermo con il ciclo di san Paolo nella navatella destra, dove tra gli episodi della sua vita l’Apostolo cade a terra imbelle, colpito da un fulmine solido come un lungo dardo d’oro, che discende dalla mano del Cristo, affacciato da un cerchio aperto nel cielo.
Proseguendo nel tempo, ancora nelle arti cosiddette minori si moltiplica più spesso l’episodio delle chiamata-conversione. In realtà, oltre che per la finezza delle esecuzioni, l’arte della miniatura si rivela preziosissima perché molto spesso introduce novità iconografiche che solo più tardi saranno assorbite e riproposte dalla pittura e dalla scultura.
Infatti, in alcuni codici miniati l’Apostolo è già a cavallo, disarcionato a terra o svenuto sulla groppa del destriero. Tuttavia, ancora senza l’animale appare su una miniatura del Graduale contenente i testi dalla festa di Sant’Andrea, opera di Zanobi di Benedetto Strozzi e Filippo Torelli, della seconda metà del XV secolo ed erroneamente attribuito, in precedenza, al Beato Angelico.
Ciò che colpisce sono le due figure che, fuggendo per il terrore, sono state letteralmente tagliate via dall’immagine. Una soluzione che imprime in chi guarda lo stato d’animo che pervade la scena: concitazione, paura smarrimento. E per Paolo, disteso e paralizzato a terra, la perdita di ogni precedente certezza. Cade per perdere se stesso e risollevarsi totalmente nuovo, diventa cieco per tornare a vedere la verità.
La presenza del cavallo
E infatti sono queste le linee di fondo che caratterizzano sempre questa iconografia. Il cavallo è un’aggiunta che rende il simbolo più chiaro. L’allusione alla punizione inflitta a chi voleva sfidare gli dei della mitologia classica è inequivocabile. Un esempio fra tutti, Fetonte, precipitato con il carro rubato a Helios insieme alla sua superbia. La statua equestre, in epoca antica, specie in epoca imperiale, e in epoca rinascimentale, ricorre molto spesso e riassume in sé il significato di gloria e di potere ma anche di virtus. Il condottiero a cavallo appare più solenne, riassume in sé tutta una serie di simboli che ritroviamo anche in epoca moderna, basti pensare ai ritratti equestri di Napoleone e dei re. L’ideale del cavaliere che sconfigge il male si riflette anche in molti santi a cavallo, come san Giorgio o san Martino e l’arcangelo Michele. Paolo era un cittadino romano, viveva con quella stolida sicurezza che non lo faceva vacillare neppure di fronte all’atroce sofferenza di un martire come santo Stefano e pronto a continuare a uccidere convinto di fare il bene. L’incontro con Cristo gli fa perdere questa certezza. L’abito da cavaliere romano, con il quale è raffigurato in quasi tutte le iconografie della Conversione, viene dismesso. Contrariamente alle diffuse raffigurazioni del cavaliere fiero sul destriero, Paolo è disarcionato, a terra.
Così, tutti i più grandi artisti si sono misurati con un episodio particolare non solo della vita di Paolo, ma di ogni credente. Non è un caso che Michelangelo abbia voluto adombrare il suo volto in quello dell’Apostolo.
Nell’opera del Caravaggio le braccia spalancate di un Paolo inondato di luce sembrano quelle di un bambino appena nato. Il cavallo, dipinto così imponente e sovrastante la figura distesa, sembra voler proprio rimarcare il significato di un capolgimento radicale, quello della conversione.