Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
È bello vedere una chiesa tanto antica risplendere, oltre che per le memorie dei suoi martiri e per le sue opere d’arte del passato, anche per i sorrisi dei fedeli che la frequentano nel presente. Santa Pudenziana è la chiesa nazionale della comunità filippina in Roma, sede principale della Cappellania Filippina.
Proprio sabato scorso, alcuni giovani, vestiti con i loro abiti tradizionali dai colori vivaci, hanno reso ancora più bello il cortile. Si preparavano alla domenica del giorno dopo, 14 marzo, alla messa presieduta da papa Francesco per i 500 anni del cristianesimo nelle Filippine. E di questa gioia ha parlato il Papa durante la sua omelia: “Avete ricevuto la gioia del Vangelo: che Dio ci ha amato a tal punto da dare il suo Figlio per noi. E questa gioia si vede nel vostro popolo, si vede nei vostri occhi, nei vostri volti, nei vostri canti e nelle vostre preghiere. La gioia con cui portate la vostra fede in altre terre”.
La chiesa nel cortile
A un livello più basso rispetto al piano stradale attuale, dovuto ai lavori di papa Sisto V nel Seicento, lungo la via Urbana del Rione Monti, si devono scendere due rampe di scale, costruite nel 1870, per accedere al sagrato dall’aspetto di un bel cortile, chiuso tra i muri e bordato da vasi di piante e panchine, che immerge in un’atmosfera familiare di pace. .
La facciata si innalza verso il cielo con un caldo colore ocra e reca tracce scolorite di pitture accanto ad altre più visibili: decorazioni vivaci in rosso e nei due timpani rispettivamente il Cristo benedicente e la Vergine con il Bambino. La sua forma definitiva si deve ai restauri del 1870 voluti dal cardinale titolare Lucien-Louis-Joseph-Napoléon Bonaparte, nipote di Napoleone.
La presenza di Pietro e Paolo
Indagini archeologiche hanno intercettato i resti di due domus risalenti una all’età repubblicana (II sec. a. C.) e una all’età imperiale (I-II sec. d. C.). Si ravvisa in parte di queste strutture il titulus Pudentis, nome del figlio del senatore romano Quinto Cornelio Pudente che aveva ospitato Pietro per sette anni nella sua casa. Oltre a lui, tutti i suoi figli furono battezzati dall’apostolo Paolo: Pudente, Novato, Prassede e la titolare di questa chiesa, Pudenziana. A Prassede è dedicata l’omonima basilica e chiesa stazionale che incontreremo nei prossimi giorni.
L’ipotesi riguardo la presenza o meno delle terme, le cosiddette terme di Novato, citate nel Liber Pontificalis, che sposterebbero di cento anni in avanti le cronologie relative alla nascita della chiesa, è da rigettare a favore di una maggiore antichità cronologica.
La chiesa è citata dal IV secolo con il nome del padre Pudente, Ecclesia Pudentis o Pudentiana. La costruzione della basilica risale al tempo di papa Siricio (334 circa-399), a cura di alcuni presbiteri i cui nomi sono attestati nelle epigrafi conservate nella chiesa e che con ogni evidenza ebbero un ruolo fondamentale nella sua costruzione: Massimo, Ilicio e Leopardo.
Tra storia e leggenda
Sulle storie di Pudenziana e Prassede esiste un’abbondante letteratura che, dai Leggendari romani, composti intorno al V-VI secolo, giunge fino al medioevo con i Passionari. Si racconta, in particolare, di una lettera del prete romano Pastore indirizzata a Timoteo, discepolo di Paolo, nella quale menziona la casa di Pudente trasformata in una chiesa con il suo aiuto. Le due donne attraverso Pastore e papa Pio I (140-155), vi avrebbero costruito un battistero, convertendo numerosi pagani e amministrando loro il battesimo.
E la narrazione continua, assai ricca di particolari, tanto da considerarla leggenda e a ritenere dubbia perfino l’esistenza stessa delle due sante martiri. Si dice spesso che nei racconti agiografici l’abbondanza di particolari topografici serva a rendere “riscontrabile”, veritiero, il racconto. In questo caso sembra vero il contrario: i nomi di Prassede e Pudenziana ricorrono troppo spesso negli antichi codici per non farci credere che la loro esistenza sia stata reale.
Venerate fin dal VII secolo nel cimitero di Priscilla sulla via Salaria, come attesta anche il Martirologio romano, nell’817 papa Pasquale I fece trasferire i loro resti mortali per proteggerli dalle devastazioni dei Longobardi: Prassede nella basilica che porta il suo nome, Pudenziana in quella di suo padre fondatore. Su questo sfondo emergono prepotenti le figure di Pietro e Paolo, il cui legame con questo luogo rimarca la loro presenza e attività nella città di Roma.
Il mosaico dell’abside, un universo di simboli
A una delle fasi più antiche della chiesa appartiene il mosaico absidale, il più antico di Roma, databile a cavallo tra IV e V secolo, sotto il pontificato di Siricio e di Innocenzo I (401-417).
Le figure non si stagliano su un unico fondo d’oro e non guardano dritto davanti a sé come vediamo in altri mosaici absidali più tardi e di netta impronta bizantina. Sembrano muoversi nello spazio con un vivido naturalismo con un legame molto vicino alla pittura antica, romana e paleocristiana, così come il paesaggio architettonico è ben caratterizzato con soluzioni spaziali interessanti pur in assenza della prospettiva.
Vi è un vero e proprio accumulo di simboli e rimandi storici che ha impegnato gli studiosi in un ampio e complesso dibattito, anche perché non si è conservato integro. Purtroppo quest’opera è stata in parte smarginata e danneggiata nel 1588 o nel 1598 – sono andati persi l’agnello mistico e la colomba sotto la figura del Cristo, noti solo da disegni seicenteschi, due figure degli apostoli sui lati e l’iscrizione dedicatoria sul giro inferiore – a causa dei restauri successivi che hanno contribuito a offuscare il suo originario splendore.
Il Cristo Conservatore della basilica e del mondo
Cristo siede al centro, raffigurato su un trono alto, come un re, l’Imperator Orbis Terrarum, il Signore di tutta la terra, tra gli apostoli, ed è rivestito di un sontuoso abito dorato; in mano tiene un libro aperto su cui è scritto: Dominus Conservator Ecclesiae Pudentinae, “Il Signore conservatore della Chiesa Pudentina”. Dietro, in asse con la sua figura, la croce gemmata ritta sulla cima del Golgota, la Crux Invicta, la Croce invincibile di Costantino, mentre dai lati si protendono i simboli degli Evangelisti, gli Dei viventi dell’Apocalisse, il simbolo del tetramorfo, contro un cielo che sembra quello di un magnifico e corrusco tramonto, azzurro, striato di nuvole chiare e purpuree.
Lo sfondo è percorso dal tetto di un’esedra, edificio a forma di emiciclo, che gira tutto intorno all’abside a sbarrare il profilo di un panorama urbano con edifici che sono stati interpretati come quelli costruiti da Costantino I a Gerusalemme, oppure come la Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse.
Le due ecclesiae incoronano gli Apostoli
Le due donne dietro agli apostoli Pietro e Paolo nell’atto di porgere la corona sono di età differenti, una giovane e l’altra matura. Come ipotesi immediata si è pensato alle due sorelle martiri Pudenziana e Prassede, ma la quantità di elementi metaforici dell’opera indica più propriamente le personificazioni dell’Ecclesia ex circumcisione (la Chiesa dei giudei) e dell’Ecclesia ex gentibus (la Chiesa dei gentili o dei pagani) che incoronano rispettivamente i loro rappresentanti, gli apostoli Pietro e Paolo. Le due Ecclesiae si ritrovano, contrassegnate dall’iscrizione, anche nel mosaico del catino absidale più tardo della basilica di Santa Sabina, ma è in generale una iconografia diffusa che si riassume nella Concordia Apostolorum, la concordia degli Apostoli nel segno dell’unione della Chiesa orientale con quella occidentale.
La crisi di un’epoca e la consolazione nel Salvatore
Questa scena complessa rappresenta un vero “sistema di idee e di simboli”. Alcune ipotesi offrono l’interpretazione di una raffigurazione per immagini del De civitate Dei, la “Città di Dio” di sant’Agostino, scritta tra il 413 e il 426, in un periodo di profonda crisi e decadenza dell’Impero Romano d’Occidente, e subito dopo il trauma provocato dal Sacco di Roma dei Visigoti di Alarico, nel 410, che aveva diffuso tra la popolazione una sensazione di fine del mondo imminente. Cristo imperatore non di un mondo terrestre, ma della Città di Dio, che è la Chiesa. Cristo Conservator, recita l’iscrizione sul libro, come Colui che conserva, protegge. Il fatto che Alarico avesse seminato devastazione in Roma tranne che nella chiesa di Santa Pudenziana è stato interpretato come il motivo per il quale al Cristo del mosaico è stato attribuito il titolo di Conservatore.
Si tratterebbe di un’opera commissionata dal papa Innocenzo I con l’intento, da una parte di divulgare il contenuto dell’opera del Vescovo di Ippona e dall’altro di offrire, attraverso le immagini, consolazione in un momento drammatico, destinato alla frattura finale della caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476.
Un significato di speranza
Tale ipotesi però mal si concilia con le cronologie, che trascinano la datazione del mosaico verso un periodo più tardo rispetto alle fonti storiche ed epigrafiche e alle caratteristiche stilistiche dell’opera, che invece lo collocano prima del Sacco di Roma. Quest’opera rappresenta il risultato di una sperimentazione, sull’onda dei concili ecumenici di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), di un linguaggio nuovo che combina l’iconografia del filosofo con gli allievi, diffusa ad esempio sui sarcofagi paleocristiani, con quella imperiale tardo antica della statuaria o sui rilievi dell’Arco di Costantino. Qui Cristo sembra quasi la proiezione bidimensionale di una statua colossale, ma la sua postura non è ancora pienamente fissa e frontale e il gesto è morbido e non intimidatorio. Inoltre su queste immagini agirebbe l’influsso degli ambienti culturali che ruotavano intorno a san Gerolamo.
I significati di questo splendido mosaico sono veramente stratificati e complessi, ma come pervasi dalla promessa della Parusia o seconda venuta del Cristo. Una rappresentazione apocalittica quindi, ma piena di speranza.
Le fasi successive della basilica
Il campanile si data al XIII secolo mentre un restauro fu effettuato nel 1588 quando, per volere del cardinale titolare Enrico Caetani, fu ridotta a una unica navata da Francesco Cipriani da Volterra, che costruì anche la cupola affrescata da Niccolò Circignani detto il Pomarancio, nel 1587-78, con la figurazione del paradiso che sembra voler fare eco alla decorazione del catino absidale.
Il volto di Cristo emerge da un foro circolare aperto nel cielo, tra nuvole popolate da angeli musicanti, con colori sfumati ma luminosissimi in accordo ai mosaici più antichi.
Tra le opere, la Cappella di San Pietro del 1595 con la Consegna delle Chiavi a Pietro, opera di Giovan Battista della Porta, ricorda l’ospitalità a san Pietro nella casa di Pudente.
La Cappella Caetani, con le tombe del cardinale Enrico Caetani e del duca Filippo Caetani attribuite al Maderno, presenta un rilievo in marmo con l’adorazione dei Magi, opera di Pietro Paolo Olivieri e di Camillo Mariani mentre la volta a mosaico è stata realizzata nel 1621 da Paolo Rossetti su disegno di Federico Zuccari.