Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Un’epopea senza medaglie al valore ma di valore inestimabile. Un’impresa di bene che scorre immersa in una folla spinta via dalla propria vita da una “pazzia” come la chiama il Papa, gente rapinata di un’esistenza da missili e cannoni che da mesi ha bisogno di una mano cui aggrapparsi. Potrebbe scivolare via inosservata fra le trame della grande macchina della solidarietà, innescata dalla macchina della guerra ai confini con l’Ucraina. Ma su una di queste frontiere in particolare – sul kordon, che in ucraino vuol dire appunto “confine” – tra Ucraina e Ungheria un occhio attento ha catturato la gratuità di alcune protagoniste di questo coraggio senza riflettori, donne che per scelta hanno cominciato a combattere una personale guerra a rovescio, sobbarcandosi il peso di portare aiuto laddove la follia ha prodotto una tragedia collettiva.
L’occhio attento, come quello della sua macchina da presa, è quello di Alice Tomassini – giovane filmaker, autrice e regista indipendente di documentari – e “Kordon” è il titolo dato alla sua ultima fatica, una storia di storie, quelle di cinque volontarie ucraine alla periferia di Zahony, impegnate a fare la spola tra l’Ucraina e l’Ungheria per ridare speranza a un popolo sotto attacco.
Prodotto da Vatican Media e Tenderstories, Kordon è uno dei lavori presenti al Festival del Cinema di Roma, apertosi ieri. Dopo la proiezione per i media in mattinata, questa sera è il museo “Maxxi” a dare visibilità a questo racconto di resistenza e solidarietà al femminile. Per Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la Comunicazione, il docufilm descrive “la guerra con gli occhi velati di lacrime delle donne e dei bambini, di chi non la voleva, non la credeva nemmeno possibile e ci si è trovato immerso, come se il mondo gli fosse caduto addosso”, mentre Moreno Zani, fondatore di Tenderstories, sottolinea che in questa fase storica “il cinema può e deve rappresentare uno strumento per veicolare un’autentica cultura di pace”.
Un obiettivo, questo, che condivide la stessa autrice, che nell’intervista di Rosario Tronnolone auspica che “Kordon” risuoni in chi lo vedrà come un “manifesto di pace”.
“Kordon” ha una gestazione per certi versi non prevista…
La parte che mi ha emozionato di più nel raccontare questa storia, trovandomi lì al confine tra l’Ucraina e l’Ungheria, è stata proprio quello di avere incontrato queste donne che senza un’organizzazione avevano deciso di andare lì per dare una mano e per aiutare. Anch’io ero partita come volontaria al confine, due settimane dopo l’inizio della guerra, e avevamo organizzato con il mio ragazzo una campagna crowdfunding per un bus e aiutare le persone. Quando sono arrivata lì, mi sono resa conto che c’erano tante altre volontarie che in modo autonomo avevano deciso di organizzarsi per poter provare a fare qualcosa. E lì ho pensato che sarei stata molto più utile come regista che come volontaria e non potevo non raccontare questa storia perché è una storia dolorosa, ma anche di grande speranza.
Il titolo che hai voluto dare al tuo film, “Kordon”, come nasce?
“Kordon”, che significa “confine” in ucraino, mi ha fatto pensare che fosse giusto per raccontare quella linea di confine. Nel film la guerra non la vediamo mai, se non attraverso gli occhi di quelle persone che quel confine l’hanno superato.
Qual è il ruolo che hanno avuto, che hanno le donne in questo frangente?
C’erano solo donne e bambini, quando sono arrivata, per questo la scelta di raccontare storie al femminile. Le cose incredibili sono le loro storie singole, per esempio una delle protagoniste, Diana, ha imparato a guidare un furgone bianco, enorme, con le sue figlie – prima faceva un altro lavoro – e altro visto che solo le donne possono oltrepassare il confine, lei fa la spola con questo furgone, carica le merci in Ungheria, le porta in Ucraina dove hanno un loro magazzino e prende le persone che stanno scappando per poi portarle oltre il confine. Così come Irina che ha organizzato un bus per andare a prendere una sua amica e la bambina. Come Elena che è venuta dall’altra parte del mondo, lei vive in Canada, anche se è ucraina, ed è arrivata lì per poter provare a convincere tua mamma a venire via con lei… O Anastasia, una ragazza russa che viveva da un po’ a Budapest, e anche lei è andata lì per dare una mano, quindi mi sono trovata questa linea di confine e intorno a me c’erano solamente donne, bambini e anziani…
Come sei ritornata a casa da questa esperienza?
Diversa, sicuramente. Ho provato molto dolore, perché anche se non ho visto la violenza in prima persona, ho condiviso però il dolore di trovarsi improvvisamente sopra un bus che va chissà dove… Quindi sono stata male e spero che questo documentario possa essere un manifesto di pace con questa storia di resistenza e di speranza.