di Alessandro Gisotti
“Preghiamo Dio che il sacrificio di John Kennedy sia fatto per favorire la causa che ha promosso: aiutare a difendere la libertà dei popoli e la pace nel mondo”. Con queste parole commosse Paolo VI ricordava il 23 novembre del 1963, la figura del presidente degli Stati Uniti ucciso brutalmente a Dallas il giorno prima. Il Pontefice sottolineava dunque il binomio pace e libertà commemorando il primo presidente cattolico che aveva ricevuto in Vaticano, pochi mesi prima dell’assassinio. Significativamente, ogni anno quando ci si avvicina all’anniversario della morte di JFK ritornano analisi e riflessioni sulla “presidenza interrotta”, segno che nonostante siano passati quasi 60 anni, quell’esperienza politica ha ancora un forte fascino e un valore che travalica i confini degli Stati Uniti. Quest’anno, per esempio, registrando un “ritorno” del multilateralismo nei rapporti internazionali – anche se non sempre con risultati esaltanti (vedi la Conferenza di Glasgow sul clima) – si è richiamato appunto il contributo che John F. Kennedy offrì nei suoi mille giorni di presidenza in favore di una politica internazionale meno unipolare e più propensa al dialogo e alle istanze multilaterali. “La politica estera di Kennedy – osserva Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, interpellato dall’Osservatore Romano – è stata contradittoria, come lo sono spesso le politiche estere di molti paesi, specie in età contemporanea, quando i problemi da affrontare sono tanti e complessi. Tuttavia, con l’immagine della Nuova frontiera contribuì ad un clima di speranza che è sempre il miglior alleato della pace. Raccolse cioè in parte le aspirazioni dei popoli alla collaborazione internazionale molto forti nei primi anni Sessanta, di cui il principale protagonista fu Giovanni XXIII, che fece molto per dissipare il clima plumbeo della Guerra Fredda, impedire la guerra ‘calda’ – per esempio in occasione della crisi di Cuba – e favorire un più intenso multilateralismo, imperniato sulle grandi organizzazioni internazionali, a partire dall’ONU. Erano gli anni cruciali della decolonizzazione – il 1961 venne chiamato l’‘anno delle indipendenze’ – e sembrava che il mondo sarebbe stato diverso con la presenza di tanti popoli giovani sullo scenario internazionale”.
“Kennedy fu sicuramente un internazionalista – sottolinea al nostro giornale l’ambasciatore Pasquale Ferrara, docente di Diplomazia e negoziato alla LUISS di Roma – ma va precisato il senso di questa scelta politica. E’ famosa la sua frase ‘non bisogna mai negoziare per paura, ma non bisogna mai avere paura di negoziare’. Non era un pacifista ad oltranza, ma credeva nella trattativa. Firmò con l’Unione Sovietica il primo trattato per la messa al bando parziale dei test nucleari, un accordo fondamentale sul controllo degli armamenti nell’era atomica. Non so se si possa definire Kennedy un ‘multilateralista’ nel significato odierno del termine. La verità è che allora non vi erano molte scelte. Oggi gli Stati Uniti, pur mantenendo un forte impegno all’ONU, sono molto interessati a creare, sulle grandi questioni globali, delle coalizioni tematiche e selettive. Negli anni di Kennedy l’obiettivo fondamentale degli USA restava quello di far funzionare il Consiglio di Sicurezza e l’Alleanza Atlantica: due istituzioni multilaterali propriamente dette”.
Uno dei padri dell’Europa, Jean Monnet, considerava Kennedy un presidente americano particolarmente sensibile al processo di unificazione europea. D’altro canto, JFK fu anche il fautore di una partnership atlantica più stretta incontrando, come è noto, l’opposizione di Charles De Gaulle in particolare sull’ingresso del Regno Unito nella Comunità Europea. Cosa resta dunque oggi della presidenza Kennedy nel rapporto tra Washington e Bruxelles? “Kennedy – risponde il professor Ferrara – tentò di rilanciare l’unità politica dell’Occidente. Arrivò a proporre una forza nucleare collettiva atlantica, associando le potenze europee, a partire dalla Gran Bretagna, alla sua gestione. Oggi è curioso notare ancora una volta lo smarcamento dell’Inghilterra dalla UE e una tendenza verso una bilateralizzazione delle intese sulla sicurezza (come nel recente accordo tra Grecia e Francia). Senza contare le tensioni sulle frontiere orientali (Bielorussia, Ucraina), molto diverse da quelle della Guerra Fredda, ma non meno preoccupanti. L’eredità di Kennedy suggerisce che ‘l’Europa delle nazioni’ è molto più fragile dell’Europa dell’integrazione, sia sul piano strategico e della sicurezza, sia su quello simbolico, come spazio politico comune”.
Certo è che, anche a distanza di oltre mezzo secolo, la soluzione diplomatica della crisi di Cuba resta il momento più alto e drammatico di quella presidenza sullo scenario internazionale. Ne è convinto Agostino Giovagnoli. “John Kennedy – sottolinea lo storico – ha dato un contributo importante alla distensione nel contesto della Guerra Fredda. Ciò è avvenuto soprattutto a seguito della crisi di Cuba del 1962, quando il mondo si trovò ad un passo dalla guerra nucleare: quel pericolo indusse Stati Uniti ed Unione Sovietica a fermarsi prima dell’irreparabile e ad avviare un dialogo che ha portato a smantellare le rispettive basi missilistiche in vari Paesi – tra cui l’Italia – e a sviluppare una trattativa per il contenimento delle armi nucleari. Nel 1963, Kennedy visitò Berlino – dove nel 1961 era stato costruito il Muro che divideva in due la città – e pronunciò la famosa frase: Ich bin ein Berliner (“Io sono un berlinese”), che da una parte esprimeva la piena solidarietà occidentale verso i berlinesi ma dall’altra riconosceva il Muro come un fatto compiuto che non poteva più essere messo in discussione”. Kennedy, Giovanni XXIII, Krusciov. La figura del presidente americano viene spesso accostata agli altri due protagonisti di quegli anni. Il tema della pace, del dialogo e del disarmo nucleare sono sicuramente centrali nella presidenza Kennedy che pure avviò l’escalation militare in Vietnam. Luci e ombre, dunque, mentre resta intatto l’appeal internazionale della figura del presidente ucciso a Dallas. “L’appeal di Kennedy – osserva ancora Giovagnoli – fu legato in buona parte alle aspirazioni di un mondo occidentale sempre più lontano dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che stava archiviando l’asfissiante clima dell’anticomunismo maccartista, che sperimentava un crescente benessere e che sognava un progresso senza limiti. Sembrò possibile che modernizzazione e giustizia potessero legarsi sempre più strettamente”.
Un carisma legato anche alla visione “aperta” che Kennedy aveva del mondo e delle relazioni internazionali, dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale che aveva vissuto in prima persona come ufficiale di marina di stanza nel Pacifico. “Rispetto ai tempi di Kennedy – evidenzia Pasquale Ferrara – il contesto internazionale è profondamente mutato. Ma una lezione rimane attualissima. Kennedy diceva che se non possiamo appianare le nostre differenze, possiamo però creare un mondo in cui la diversità non costituisca necessariamente un problema insuperabile. E oggi il tema del confronto del sistema occidentale con sistemi alternativi è in testa all’agenda internazionale”.