Israele-Palestina, l’analisi: “Due Stati, soluzione ancora lontana”

Vatican News

L’intervista su L’Osservatore Romano al professor Amnon Aran, docente di politica internazionale del Medio Oriente alla City University of London

di Roberto Paglialonga

“La soluzione dei due Stati è ancora molto lontana, a mio modo di vedere. L’attuale governo israeliano non è in grado di negoziarla, troppo forte la componente interna dell’estrema destra: bisognerà attendere una diversa situazione politica e di sicurezza per poterne parlare”, spiega Amnon Aran, professore di politica internazionale del Medio Oriente alla City University of London, che con “L’Osservatore Romano” analizza quanto è accaduto a Gaza dal 7 ottobre. “Oggi siamo a uno stallo, e al momento è politicamente impossibile arrivare a un cessate-il-fuoco. Mi spiego: uno dei capi di Hamas ha chiarito in una intervista al New York Times che l’obiettivo dell’attacco non era migliorare la situazione a Gaza, ma creare uno stato di instabilità permanente attorno a Israele, arrivando a distruggerlo. Dal canto suo, Israele ora punta a disintegrare Hamas, e non si fermerà”.

Ma è eliminare Hamas?

Non credo. Hamas è un’idea politica, ha una forte presa nella società palestinese. La sua distruzione però non è l’obiettivo dichiarato di Israele, adesso. L’obiettivo è più specifico: rimuovere totalmente le capacità militari di Hamas, in modo che non sia più in grado di governare Gaza e, a dirla tutta, neanche la Cisgiordania. Questo sì, è possibile, ma il punto è: se Hamas viene rimossa, cosa viene dopo?

Cosa accadrà in Israele alla fine della guerra?

Difficile dirlo. Ciò che vedo è che, a livello sociale, al momento c’è un compattamento, un consenso quasi unanime sul fatto che questa sia una guerra “senza scelta”. A livello politico, la spaccatura risiede nel fatto che non c’è un governo di unità nazionale. Ma Israele ora ha il dovere di rimuovere l’insicurezza che Hamas crea, anche perché la stessa Hamas ha provocato la rottura di una sorta di contratto sociale tra il governo e chi viveva vicino ai confini con il Libano e con Gaza: questi avevano accettato di vivere lì, a patto di avere la protezione dei militari. Sradicare questo stato di insicurezza è il presupposto perché tornino nelle loro case.

Il piano degli Usa di riportare l’Autorità nazionale palestinese a governare Gaza è realistico?

Sì, ma chiunque lo propone deve tener conto che l’Anp per accettarlo probabilmente chiederà anche un cambio dello status quo in Cisgiordania. L’Anp non vorrà entrare a Gaza dietro i tank israeliani e basta. Se mai ci sarà un accordo simile, avanzerà richieste di contropartite: la trasformazione di tutte le aree B (di competenza mista tra palestinesi a livello civile e israeliani per la sicurezza), in aree A (di competenza esclusiva palestinese); la liberazione dei prigionieri; il congelamento degli insediamenti e l’annullamento di quelli illegali, soprattutto quelli nell’area C (sotto controllo israeliano); il finanziamento della ricostruzione e la garanzia di mantenere intatta politicamente l’Anp stessa.

Nell’Autorità c’è un problema di leadership.

Mahmud Abbas è debole. Ma al di là dei nomi che si fanno per la successione, come Mohammed Dahlan, ex capo dei servizi di sicurezza a Gaza e con molte relazioni nel Golfo, o Hussein al-Sheikh, segretario del comitato esecutivo dell’Olp, il punto è che nell’Anp ci sono problemi di legittimità e corruzione. Solo che se Hamas viene indebolita, non c’è nessun altro attore in grado di riempire quel vuoto.

Qual è il ruolo degli altri paesi nella guerra?

Ci sono due gruppi. Anzitutto, i mediatori, come il Qatar, che è l’unico ad avere rapporti con tutti in questa crisi, ha ottime relazioni con Hamas e ha garantito un flusso di denaro consistente a Gaza negli anni; e l’Egitto, che non ha il denaro del Qatar, ma ha l’unico punto di accesso alla Striscia e in passato ha mediato positivamente tra Hamas e Israele. La Giordania è in una posizione difensiva e spera che la situazione in Cisgiordania non esploda.

Poi ci sono quelli che potrebbero entrare nel conflitto in qualsiasi momento, come l’Iran, che supporta Hamas e Hezbollah. E finora è solo il consistente dispiegamento di forze Usa nel Mar Rosso e nel Mediterraneo orientale che ha impedito un’estensione della guerra.

Infine, c’è l’Arabia Saudita. Non è un caso che la strage del 7 ottobre si sia verificata proprio poco dopo che Mohammed bin Salman aveva annunciato l’imminenza dell’accordo con Israele. Riyad può garantire legittimità e soldi per qualsiasi patto preveda il ritorno dell’Anp a Gaza nella fase post-conflitto. In questo momento l’Arabia è silente. Il conflitto non riguarda solo attori regionali, ma anche una coalizione capitanata dagli Usa, da una parte, e Iran, Russia, Hezbollah, houthi nello Yemen, dall’altra: la vittoria di Israele consentirebbe la creazione di un’architettura a marchio Usa basata su una partnership arabo-israeliana assieme pure ai sauditi.

E la Turchia?

Durante la guerra non credo che avrà un ruolo significativo. Si è messa completamente dalla parte di Hamas. Probabilmente dopo, nella fase della ricostruzione, vedremo un suo ritorno con investimenti e aiuti umanitari. Ankara e Tel Aviv hanno molti interessi comuni, a iniziare dall’energia e dalla sicurezza. Ma Erdogan tratterà solo con il successore di Netanyahu.