Antonella Palermo – Città del Vaticano
Siamo agli inizi di luglio, a Parigi. Entriamo nella Maison Saint Jean de Malte – Maison d’Accueil Spécialisée (MAS), in rue d’Hautpoul, un Centro per disabili gestito dai Cavalieri di Malta. Corridoi colorati con foto di gruppo e lavoretti a mano appesi alle pareti. Qualche pianta, persone in carrozzina, giovani per lo più. Il dottor Bassam Moucice ci accoglie e ci conduce in una sorta di sala da pranzo. Con sobrietà e grande umiltà ci parla della comunità caldea della zona di Sarcelles, regione dell’Île-de-France. Lui ne fa parte. Giunto vent’anni fa da Mosul ora è membro del Consiglio pastorale della parrocchia di Notre-Dame dei Caldei a Parigi.
I cattolici francesi e le porte aperte per i profughi caldei
In tutta la regione si contano circa 12mila caldei. Ci viene detto che a Sarcelles c’è la più grande chiesa caldea d’Europa e che i caldei sono molto presenti in Francia: a Lione c’è una importante comunità, ma anche a Strasburgo e a Marsiglia. Sono sparsi un po’ ovunque, soprattutto dal 2014, profughi iracheni. Il dottor Moucice ci spiega che i cattolici francesi hanno aperto le porte delle proprie case a queste persone in cerca di una nuova dimora. E sottolinea quanto questo gesto di apertura e solidarietà sia l’espressione della carità concreta che risponde agli appelli di Papa Francesco.
Quel viaggio ‘impensabile’ del Papa in Iraq
“Il Viaggio Apostolico del Papa in Iraq sembrava impensabile e invece è stato possibile realizzarlo ed è stato vissuto con una gioia immensa dalla popolazione, anche da chi lo ha potuto seguire solo attraverso la tv da lontano, come noi”. Sono le parole di questo medico che si commuove quando pensa a chi ancora vive nel Paese ferito dalla guerra, dalla povertà, dalla crisi economica. “La presenza del Papa in quella terra è stata un segnale di speranza; forse un giorno ci sarà possibile ritornare nei luoghi dei nostri avi, chissà…”. Il ricordo del proprio Paese d’origine è quanto mai vivo: quell’Iraq appena uscito dalle elezioni legislative anticipate a cui erano chiamate anche 120mila persone sfollate irachene. Una trentina sono i campi profughi sparsi in tutto il Paese, in particolare nel centro e nel nord, nelle aree investite tra il 2014 e il 2017 dall’offensiva dell’Isis e dalla guerra intestina.
L’integrazione sociale e religiosa
Bassam ci racconta quanto l’integrazione dei caldei nella società francese sia ormai un dato di fatto che non presenta difficoltà particolari, soprattutto con le persone musulmane. “Qui è un mosaico e io ci vivo benissimo”, dice con molta naturalezza. Sua moglie è ortodossa di origine siriana. Hanno due figli e la sua serenità è ora lampante, nonostante le perdite familiari che la guerra, soprattutto, gli ha causato nel tempo: il papà e un fratello morti all’epoca della guerra Iran-Iraq, un altro ancora nella seconda guerra del Golfo. “Mia madre, un altro fratello e mia sorella vivono a Lione. Due fratelli vivono in Canada. In pratica siamo emigrati tutti. Io ho tentato per sette volte di lasciare l’Iraq. Abitavo davanti a una chiesa del 790, a Mosul”, racconta. Molti caldei – spiega – hanno cominciato ad arrivare in Francia negli anni Ottanta passando per la Turchia. “Prima avevano attività commerciali – dice Bassam – poi con il tempo sono diventati tutti professionisti e ormai appartengono alla classe media. Ciò è accaduto soprattutto a Sarcelles dove solo imprenditori sono riusciti ad acquistare case anche molto belle e hanno potuto fare donazioni importanti per costruire chiese in quella regione”.
La pandemia e il senso di comunità
Dalle rovine affiora la resurrezione. E’ la sintesi del suo messaggio, che non è altro che il Vangelo. “Gesù, che è morto, è stato massacrato, sceso all’Inferno, è risuscitato”, ricorda. “Il Santo Padre ci incoraggia alla speranza, possiamo risorgere nella nostra terra, possiamo ricostruire le chiese, ma soprattutto possiamo ricostruire l’essere umano, dall’interno. Questo vale sia per i cristiani che per i musulmani”. E conclude guardando al tempo più difficile vissuto in mezzo alla pandemia. “La pandemia ha causato diversi contagi nella comunità di cui faccio parte – dice Bassam – e io ho fatto quanto ho potuto, in qualità di medico, per venire incontro alle esigenze delle persone che si erano ammalate. Qui la vita si svolge molto all’insegna del contatto amicale perché forte è il senso di appartenenza e di comunità; questo aspetto ha inciso sulla diffusione del virus che però adesso è sotto controllo. La solidarietà è stata visibile in questo frangente”.