Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Protocolli, minute, procedure, rendicontazioni. E poi fondi, database, bilanci, investimenti, tassi, percentuali. È stata molto tecnica e dettagliata sul lavoro amministrativo e sugli investimenti della Segreteria di Stato la diciassettesima udienza di oggi del Processo vaticano sui presunti illeciti con i fondi della Santa Sede. Udienza interamente dedicata alla prima parte dell’interrogatorio a Fabrizio Tirabassi, ex funzionario dell’Ufficio Amministrativo del Dicastero, ora imputato per cinque capi d’accusa (peculato, corruzione, abuso d’ufficio, truffa, estorsione).
Interrogatorio di circa quattro ore
L’udienza, dalle 10.05 alle 14.30, si è svolta in tempi più brevi rispetto a quelle dei giorni scorsi. Non si sono registrati poi momenti di tensione come nelle precedenti sedute e tutto l’interrogatorio è stato condotto dal Promotore di Giustizia aggiunto, Alessandro Diddi. Tirabassi, appena seduto al banco degli imputati, ha detto alla Corte presieduta da Giuseppe Pignatone: “È giusto sottopormi alle vostre domande”.
La carriera di Tirabassi
Entrato in Segreteria di Stato a 22 anni nel 1987 come dattilografo, divenuto nel tempo esperto di economia e contabilità, Tirabassi ha descritto approfonditamente il funzionamento dell’Ufficio Amministrativo, sia sotto la guida di monsignor Gianfranco Piovano e, dal 2009, di monsignor Alberto Perlasca, testimone del processo in corso, costituitosi parte civile contro il cardinale Becciu. Di Perlasca, Tirabassi ha parlato come di una personalità dal “carattere conflittuale” ma dalla “forte professionalità e una dedizione al lavoro estrema”.
Investimenti sul “mattone”
Il monsignore “partecipava attivamente e regolarmente agli incontri con i gestori finanziari della Segreteria di Stato, aveva un controllo molto presente. Si faceva spiegare le opportunità, metteva impegno per capire i fatti”. E “non condivideva che ci fossero investimenti prettamente finanziari”. Nel 2013-14 il prelato cominciò infatti a valutare investimenti di carattere diverso, come quelli immobiliari: “Aveva il pallino che il mattone era conservativo”. Una idea, ad esempio, era quella di acquistare e non affittare gli edifici delle Nunziature Apostoliche, per ristrutturarli e usarli. Il ricavato da una eventuale vendita sarebbe stato certamente maggiore, come ad esempio la Nunziatura in Giappone che, ha detto Tirabassi, aveva un valore di 500 milioni di dollari.
Confronto con il sostituto
Di ogni idea o proposta, Perlasca riferiva al sostituto: “Si confrontava nelle udienze di tabella giornaliere, da lunedì a sabato. Tornava e dava indicazioni, avevo la certezza che fossero del sostituto”, ha affermato Tirabassi. Lui, da minutante, ha detto di non aver mai avuto contatti diretti con il sostituto.
L’Ufficio Obolo
Tirabassi ha parlato anche dell’esistenza di un Ufficio Obolo nella Segreteria di Stato, per la gestione del fondo in cui confluiscono le offerte dei fedeli. Offerte non solo per i poveri ma anche per gestire le necessità della Santa Sede. È questo fondo “l’ultima” delle risorse a cui attingere; la penultima è la donazione di utili dello Ior pari a 50 milioni di euro, ridotta negli ultimi anni a 30 milioni. “Senza quelle somme non riuscirebbero a pagare gli stipendi”.
Professionisti e banche
A Tirabassi il Promotore ha chiesto conto anche dei tanti professionisti avvicendatisi negli anni in Segreteria di Stato in qualità di esperti: nomi e cognomi, quali funzioni svolgessero, se retribuite o meno, da chi fossero incaricati. Citate anche le banche che hanno avuto “relazioni” con il Dicastero. Quella “storica” era la Credit Suisse, di cui per anni è stato manager Enrico Crasso (imputato), dagli anni ’90 consulente finanziario della Segreteria di Stato. Fu proprio la Credit Suisse a introdurre la figura di Raffaele Mincione, broker internazionale, anch’egli imputato, presentato da Crasso come gestore di riferimento e tra i principali clienti della banca.
Mincione e l’affare con Falcon Oil
Mincione fu segnalato da Credit Suisse come esperto per valutare l’affare per un giacimento petrolifero in Angola. Era stato il cardinale Becciu – lo ha ammesso lui stesso – tra il 2012 e il 2013 a chiedere a Perlasca di valutare la proposta avanzata dall’imprenditore angolano, Antonio Mosquito, proprietario della Falcon Oil. Quest’ultima deteneva il 5% dei diritti del Pozzo 5, per il quale l’Eni aveva messo a disposizione le tecnologie di estrazione. “L’Eni era leader sul posto”, ha detto Tirabassi. Le quote maggioritarie erano della Sonengal. Mosquito, conoscenza di Becciu dai tempi della Nunziatura nel Paese africano come “benefattore”, chiedeva alla Santa Sede di investire in quel 5% “in cambio di profitti derivanti dall’estrazione”. L’imprenditore venne pure in Segreteria di Stato, ha raccontato Tirabassi, a presentare la sua proposta a Becciu e ne parlò con l’allora segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, che si mostrò “favorevole all’iniziativa” e si rivolse “a consulenti Eni per valutare le modalità operative dell’eventuale investimento”.
Anticipi e spese
Becciu incaricò Perlasca di analizzare l’operazione. Perlasca chiamò Crasso per un parere. Crasso si informò presso il servizio di Credit Suisse Londra che trattava di questo tipo di interventi. E così fu coinvolto Mincione che ebbe un “mandato esplorativo gratuito”, prima verbale poi scritto. Il broker chiese un anticipo di 500 mila dollari, perché, a suo dire, erano necessarie delle spese. “C’era bisogno di analisi più approfondite e si costituì un fondo per l’esplorazione dell’affare potenziale”. A Mosquito fu chiesto di sostenere l’anticipo al 50%. Fu quindi avviata una due diligence durata un anno e mezzo.
Investimento in conflitto con la Laudato si’
L’affare, com’è noto, non andò in porto perché l’investimento, “pur essendo buono”, non offriva sufficienti e necessarie garanzie. Così si leggeva in un rendiconto finale di Mincione. Oltre a questo, si valutarono “potenziali implicazioni” di carattere geopolitico e reputazionale. La Banca Ubs rifiutò di esporsi a causa del “settore geopolitico” e non diede luogo al finanziamento. E poi “investire nel petrolio sarebbe potuto sembrare certamente a rischio dal punto di vista ambientale”, ha spiegato Tirabassi, “non coerente” peraltro con le finalità etiche esplicitate dal Papa nella Laudato si’, in preparazione proprio in quegli anni. “C’è stato bisogno di un anno e mezzo per arrivare a queste conclusioni?”, ha domandato Diddi. Tirabassi ha rispondo dicendo di essersi meravigliato all’epoca che Perlasca volle comunque andare avanti e cercare un altro istituto di credito per il progetto, nonostante questo sembrasse andare contro le indicazioni del Papa contro lo sfruttamento delle risorse naturali e la finanza speculativa. “Da minutante mi meravigliavo, ma non era mio compito contestare. Viviamo in trincea”.
Il fondo Athena
A bloccare la trattativa fu il segretario di Stato allora da poco nominato, Pietro Parolin. Becciu nell’interrogatorio di due giorni fa ha assicurato di aver chiuso là la questione, senza mai insistere, pur essendo legato a rapporti di amicizia con Mosquito.
In vista del potenziale affare, Mincione propose l’istituzione di un fondo regolamentato in Lussemburgo per le materie prime di nome “Athena Commodities Fund”. Nacque invece al suo posto il noto Athena Capital Fund. Fu quello che portò all’acquisizione del Palazzo di Londra, ora al centro del procedimento giudiziario.
Le prossime udienze saranno il 30 e 31 maggio e il 1° giugno.