In Sudan annuncio a sorpresa: verso un governo di civili

Vatican News

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Sudan, dopo quattro giorni di manifestazioni, costate la vita a nove dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine, il presidente del Consiglio sovrano e di fatto capo di Stato del Sudan, il generale Abdel Fatah al-Burhan, è intervenuto inaspettatamente in TV aprendo alla possibilità di trattare con i civili il futuro del Paese arabo-africano. Il generale ha parlato di nuovo possibile scenario politico, dopo mesi e mesi di impasse politica e dure reazioni contro i manifestanti. Il leader del colpo di Stato messo in atto lo scorso ottobre ha invitato i “partiti politici e le organizzazioni rivoluzionarie sudanesi a impegnarsi in un dialogo immediato e serio per formare un governo di persone competenti, indipendenti che possano portare a termine i compiti del periodo di transizione”. 

La proposta di dialogo Onu

In sostanza, il presidente del Consiglio sovrano chiede ai suoi avversari di partecipare al dialogo avviato da Nazioni Unite, Unione Africana e IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), ai quali però gli oppositori del regime militare finora si sono rifiutati di partecipare, proprio per la presenza dei responsabili del golpe.  Al-Burhan ha sottolineato quello che appare come l’elemento più importante: “L’esercito non parteciperà più a questi incontri e in futuro si occuperà solamente di difesa e sicurezza nazionale”.

Le possibili tappe della transizione

Inaspettatamente il generale ha anche affermato di non escludere che il Consiglio sovrano di transizione che presiede possa essere sciolto, una volta formato il nuovo governo civile, anche se è immaginabile che un Consiglio supremo delle forze armate dovrà poi essere istituito. La formazione di un esecutivo civile è la principale richiesta delle forze rivoluzionarie che per quattro giorni hanno occupato pacificamente ma in modo massiccio strade, piazze a Khartoum e in altre città del Paese.

I fatti di ottobre

Il 25 ottobre scorso un golpe ha deposto l’ex primo ministro Abdallah Hamdok, mettendo al comando il capo dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan. Almeno 81 manifestanti sono stati uccisi in pochi giorni nella repressione seguita alle proteste. I manifestanti hanno continuato a chiedere l’intervento della comunità internazionale per porre fine alla scia di sangue e ripristinare le libertà democratiche ma la loro richiesta di aiuto non ha portato frutti finora.

Tre anni di instabilità 

In particolare il 30 giugno scorso la folla scesa in strada a Khartoum e nelle città di Omdurman e Bahri è stata la più imponente da mesi. Si sono svolte manifestazioni anche a Wad Madani nel sud, nella regione occidentale del Darfur, negli Stati orientali di Kassala e Gedaref, nonché nella città di Port Sudan. A Omdurman, testimoni hanno riferito di gas lacrimogeni e spari mentre le forze di sicurezza hanno impedito ai manifestanti di entrare a Khartoum. In questo caso, le proteste si sono richiamate in modo speciale al terzo anniversario delle grandi manifestazioni durante la rivolta che nel 2019 ha rovesciato l’ex presidente Omar al-Bashir e ha portato a un accordo di condivisione del potere tra gruppi civili e militari. Il 30 giugno è anche il giorno in cui nel 1989 al-Bashir aveva preso il potere con un colpo di Stato. 

Tanti i tentativi di accordo nel dopo al-Bashir

Dopo la deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 si doveva avviare una transizione verso le elezioni guidata da un bilanciamento di poteri tra il primo ministro incaricato Abdalla Hamdok e i militari, avviata con l’accordo siglato il 17 agosto 2019 dall’esercito e dalle Forces for Freedom and Change (Ffc), fronte rappresentativo delle forze sociali protagoniste della sollevazione popolare. I militari avevano dato presto l’impressione di voler assumere pieni poteri interrompendo la transizione. Tralasciando altri sviluppi, va ricordato che, con un colpo di Stato, Hamdok è stato destituito ad ottobre scorso. E’ stato poi liberato a novembre e fatto rientrare in carica come primo ministro del governo di transizione sudanese fino a gennaio quando ha presentato le dimissioni non riuscendo a dare vita ad un governo di civili. Già diverse volte dunque i militari sono stati costretti a una marcia indietro dalle pressioni popolari e diplomatiche, ma hanno anche dato ripetutamente  chiari segnali della loro determinazione a utilizzare il potere di cui dispongono.