Federico Piana – Città del Vaticano
Essere il vescovo cattolico italiano più giovane, e uno tra i più giovani presuli del mondo, per lui non è un vanto, ma una responsabilità: “Tutto questo mi indica la necessità di dare la vita fin dalla mia giovinezza, come fecero Davide, Samuele e tanti santi che hanno donato la propria esistenza fin dall’inizio”. Padre Christian Carlassare, quarantatreenne missionario comboniano originario di Schio, in provincia di Vicenza, è stato scelto, qualche giorno fa, da Papa Francesco per guidare la diocesi di Rumbek, in Sud Sudan. Nel Paese dell’Africa orientale dilaniato da guerre, povertà e tensioni politiche e sociali, padre Carlassare ormai è di casa: vi mise piede, per la prima volta, nel lontano 2005 subito dopo l’ordinazione presbiteriale, diventando parroco nello Stato di Jonglei per ben undici anni ininterrotti. “Il Papa mi ha scelto, guardandomi con misericordia, come fa il Signore” sussurra, evidentemente emozionato.
Quali sono le sfide che intravede per la sua diocesi e il Paese?
R. – Il popolo sud-sudanese sta soffrendo da tempo immemorabile per i conflitti, ultimo quello che ha spezzato in due la Nazione e lo ha diviso in diversi gruppi tribali. Quindi la Chiesa è chiamata ad una grande missione: riunire insieme le pecore smarrite, tutti i gruppi ora in lotta, affinché possano riconoscersi tutti figli di Dio, tutti figli dello stesso Paese, andando oltre i propri clan e le proprie tribù. Nella mia diocesi di Rumbek sono presenti in maggioranza esponenti della tribù dei Dinka, divisi in vari clan, che hanno ancora difficoltà a rapportarsi tra loro. Tutti, però, fanno parte della stessa Chiesa cattolica, che per sua natura è universale. Ecco, in Sud Sudan penso che la Chiesa debba crescere in questa cattolicità e camminare insieme.
Vede altre sfide per le diocesi del Sud Sudan?
R.- La grande sfida delle diocesi, soprattutto di quelle nate da poco come Rumbek, è l’evangelizzazione: mettere al centro Cristo, così che la gente possa fare esperienza di Lui e non di una Chiesa percepita solo come organismo umanitario. Dobbiamo comunicare una comunità che crede, che vive insieme e risolve insieme i problemi, perché al centro c’è Dio. Evangelizzare vuol dire riconciliare ed umanizzare. Un anziano missionario mi diceva: molte persone di tante tribù sono sante prima di diventare cristiane, perché hanno dei grandi valori nel proprio stile di vita e nella propria cultura. Ma c’è, però, il bisogno di eliminare tutto ciò che ha cancellato l’immagine e la somiglianza di Dio, come, ad esempio, le guerre e le violenze. Bisogna far sapere che Dio fa guarire dai traumi e dalle violenze.
E con che mezzi si può raggiungere l’obiettivo?
R. – Attraverso la catechesi, la preghiera, formando le piccole comunità cristiane. E poi non esiste evangelizzazione senza l’attenzione alla dimensione umana: l’istruzione, la cura della salute, progetti di sviluppo sociale. Ma la proclamazione del Vangelo deve essere centrale.
Queste sfide le dovrete condividere anche con il resto della società?
R. – In Sud Sudan già la Chiesa conta sull’appoggio pieno delle istituzioni governative. E poi, come Chiesa cattolica, dobbiamo lavorare con uno spirito ecumenico, dato che sono presenti anche molte Chiese protestanti. Senza dimenticare le altre religioni, come quella musulmana.
Quali saranno i suoi primi atti come vescovo?
R.- Dopo dieci anni di sede vacante, dovrò rimettere in piedi alcune strutture essenziali per la collaborazione ministeriale e la comunione. Una delle mie priorità sarà anche quella pastorale. Bisogna tenere conto che queste Chiese sono molto giovani e hanno bisogno di essere rafforzate sotto il profilo dell’educazione per dar loro una vera speranza.