Il Vangelo in Ecuador, storia di un chicco di grano che ha dato frutto

Vatican News

Nel Paese dell’America Latina che si estende dal Pacifico alla foresta amazzonica passando per la Sierra, l’avvento del Vangelo ha maturato, tra gioie e dolori, il frutto di una Chiesa viva che si prepara ad accogliere il 53.mo Congresso eucaristico internazionale.

di Vittore Boccardi

La staffetta ideale dei Congressi riprende la strada del continente sudamericano con la scelta dell’Ecuador e, più precisamente della sua capitale, battezzata San Francisco de Quito al momento della sua fondazione quattrocento novant’anni or sono.

Le cronache che hanno cambiato direzione alla storia dell’umanità con la “scoperta” dell’America sono legate alla data simbolica del 12 ottobre 1492. Con il “descubrimiento” e la conquista degli immensi territori delle Indie Occidentali si intrecciò fin da subito l’evangelizzazione delle sue genti. Opera in chiaroscuro, perché la diffusione del Vangelo si intrecciò con il processo di colonizzazione che coinvolse i popoli e le culture indigene. I cristiani venuti dalla Spagna, presero possesso in nome del loro re dei nuovi territori con un processo che i pontefici del tempo legittimarono impegnando però “los reyes católicos” ad evangelizzare le popolazioni dell’Hispanoamerica. Papa Alessandro VI, nella bolla Inter Coetera del 4 maggio 1493, nel concedere ai Re di Castiglia tutte le terre scoperte e ancora da scoprire, impose loro «in virtù della santa obbedienza, di inviare uomini buoni e devoti a Dio ai suddetti indiani, per istruirli nella santa Fede cattolica».

L’evangelizzazione cominciò con i dodici sacerdoti, guidati da fra’ Bernardo Boyl, giunti nel Nuovo Mondo con la seconda spedizione di Colombo. Ma bisognerà attendere quasi quarant’anni perché gli spagnoli giungano sul territorio degli Incas dove regnava Atahualpa, che dopo la vittoria contro suo fratello Huáscar aveva riunito l’impero partendo dall’attuale territorio di Quito.

Francisco Pizarro, alla testa di un gruppo di soldati spagnoli, partito dalla città di San Miguel in Perù, dopo aver percorso con fatica i ripidi sentieri delle Ande, giunse a Cajamarca dove, grazie all’inganno, imprigionò Atahualpa e lo fece giustiziare pur avendo ricevuto la montagna d’oro richiesta in riscatto. Il collasso dell’impero inca e la fama dell’immenso riscatto, portarono Sebastián de Benalcázar a fondare, nel 1534, la nuova città indo-ispanica di San Francisco di Quito sulle rovine dell’insediamento incaico incendiato prima del suo arrivo. Quito divenne così il centro di nuove esplorazioni e capitale di un Governatorato con un territorio abitato da popolazioni d’antiche origine e con la grande mescolanza di usanze che il dominio dell’impero inca aveva imposto.

La prima raccolta di grano

Due anni dopo la fondazione di Quito, al centro di quella città che risorgeva pian piano, iniziò – in un luogo già caro alla memoria dei nativi – la costruzione della chiesa e del convento di San Francisco, un complesso architettonico definito, per la sua ampiezza, l’Escorial de los Andes. L’impresa si deve al francescano fra Jodoco Rique, nato nelle Fiandre e giunto in America grazie ai buoni uffici dell’imperatore Carlo V che era stato suo compagno di studi a Malines. Fu lui a gettare davanti al convento, in quella che oggi è la Piazza di San Francesco, il primo seme di grano nella terra feconda dell’Ecuador. Di quella prima messe cresciuta in Ecuador vennero fatti partecipi gli abitanti della città che poterono a loro volta seminare il cereale e diffonderlo. Parabola, questa, del buon seme del Vangelo affidato ai popoli del nuovo mondo.

Nel 1545 la comunità quiteña fu elevata a diocesi, suffraganea di Lima. I suoi confini raggiungevano a nord il territorio di Popayan (Colombia), a sud quello di Piura (Perù), a ponente giungevano al Pacifico e ad oriente affondavano nella giungla amazzonica.

Solo a partire dal 1547, con l’inizio della pacificazione del Perù, nuovi gruppi di missionari Francescani, Mercedari, Domenicani e Agostiniani, riuscirono a raggiungere le città dell’odierna terra ecuadoriana come cappellani delle truppe spagnole. Essi avevano un’esperienza missionaria maturata in altre parti del continente. Per questo cercarono di conoscere gli abitanti delle regioni di Quito, le loro lingue, le strutture sociali, le credenze, le abitudini e i costumi, coscienti che il modo migliore per evangelizzare era di farlo in lingua indigena, a partire dai figli dei cacicchi, i capi delle comunità tribali. Il tono repressivo dei primi contatti lasciò progressivamente posto alla persuasione: non si imponeva la conversione immediata, ma si attendeva la libera adesione degli indigeni perché l’accettazione della fede era incompatibile con la coercizione.

Ad opera delle congregazioni religiose, si moltiplicarono le “doctrinas”, nucleo delle future parrocchie, permettendo la nascita politica della Real Audiencia di Quito (29 agosto del 1563). Dopo che anche i Gesuiti si associarono all’opera evangelizzatrice, la Chiesa coloniale diede vita a una rete di scuole che portarono alla fondazione dell’università di San Fulgenzio e a quella di San Gregorio. Nel frattempo, il Vangelo penetrava nella fascia amazzonica del Paese.

L’evangelizzazione si sviluppò rapidamente a partire dagli ambienti urbani sostenuta dai vescovi che convocarono consigli metropolitani e sinodi provinciali per guidare l’attività missionaria, ratificare i diritti e le libertà dei nativi, favorire la catechesi e la predicazione nelle lingue indigene con l’uso di immagini, della musica e del canto. Si sviluppò così il grande mosaico della pietà popolare che è il prezioso tesoro della Chiesa cattolica in America Latina.

Il fecondo incontro con il Vangelo di popolazioni di diversa cultura, lingua e tradizione, trova chiara espressione nella santità̀ di numerosi uomini e donne tra cui rifulgono santa Mariana de Jesús (1618 – 1645), “giglio di Quito”; la “rosa di Baba y Guayaquil”, beata Mercedes de Jesús (1828 – 1883); santa Narcisa de Jesús Martillo y Morán (1832-1869), “Niña Narcisa” per tanti devoti; il beato Emilio Moscoso (1846-1897), martire dell’Eucaristia.

Il meticciato religioso di questo Paese, ha creato anche una cultura artistica autoctona portatrice di grandi valori umani, nobilitati dal Vangelo. Le arti e i mestieri trovarono la loro massima espressione nei capolavori della scuola quiteña. Basti pensare alle magnifiche chiese coloniali che affollano il nucleo antico di Quito. Tra di esse risalta il tempio della Compañia, iniziato nel 1605, stupenda realizzazione del barocco locale e della cultura di tutto un popolo.

Il sentimento nazionale “modellato dalla fede”

Negli anni recenti, la Chiesa dell’Ecuador ha valorizzato sempre più le popolazioni indigene del Paese e le culture di questi gruppi di nativi americani poco conosciuti come i Cayapas, i Colorados, gli Otavalos, i Panzaleos, i Carahuelas, i Yugulalamas, gli Shuaras, i Coyanes, i Canaris, i Saraghuros, i Tibuleos, gli Aucas e altri ancora che abitano le immense foreste orientali, i grandi fiumi e le alture della Sierra. La loro storia passata è stata segnata da tante difficoltà ed emarginazioni che non sono tuttavia riuscite a cancellare le loro differenti identità.

Le “Opzioni pastorali” dei vescovi dell’Ecuador, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, hanno sottolineato come sia perfettamente legittimo cercare la conservazione dello spirito proprio di ogni gruppo insieme con le sue espressioni culturali. Senza per questo opporsi ad una giusta integrazione e convivenza a livello più ampio, che permetta non solo lo sviluppo della propria cultura ma anche l’assimilazione di quelle realtà scientifiche, tecniche e di comunicazione che possono aiutare l’esistenza.

Nonostante gli errori, nel periodo coloniale, la Chiesa fu considerata “modellatrice del sentimento nazionale” grazie all’attenzione ai bisogni del popolo e alla promozione della dignità degli indigeni. Pietre miliari in quest’opera di servizio pastorale e di consolidamento sociale sono l’Itinerario per i parroci degli indios del vescovo di Quito, Alonso de la Pena (+1687), la prima Carta fondamentale dell’Ecuador repubblicano, redatta dall’Assemblea ecclesiastica quiteña nel 1812, l’orientamento sociale e scientifico delle cattedre dei Gesuiti dell’Università nazionale e la prima Scuola politecnica. Nell’Ecuador repubblicano, vescovi, sacerdoti diocesani, religiosi, religiose, laici hanno costruito e riaffermato, fino oggi, la fisionomia cristiana e culturale del Paese.

Tutto ciò è visibile ancora oggi nelle istituzioni educative, nel tessuto urbano della città di Quito, dichiarata dall’Unesco “patrimonio culturale dell’umanità”. Ma il patrimonio più importante è costituito dai valori che impregnano famiglie e società, vita privata e pubblica: la saggezza che viene dalla memoria storica di sconfitte e trionfi, dalla vitalità dei grandi temi religiosi che ispirano la cultura, l’arte, l’artigianato, la festa e il riposo, la nascita e la morte. Uno spirito di sincera fraternità, più forte di ogni inimicizia violenta, si manifesta nella letizia e nell’entusiasmo delle “mingas” (il lavoro comunitario solidale), nelle feste, nella cordialità verso i forestieri, nella vicinanza nell’ora difficile della prova.

In questa terra d’America che si estende dalle coste del Pacifico fino alla foresta amazzonica, dalle città e dalla campagna, dalle Ande e dalla pianura, l’avvento del Vangelo di Cristo ha maturato, tra gioie e dolori, il frutto genuino di una Chiesa viva. Essa condivide ora la sua vitalità con i pellegrini che, da ogni parte del mondo, raggiungono Quito per celebrare il 53° Congresso eucaristico internazionale.