Sui media vaticani l’intervista alla storica dell’ebraismo che affronta varie tematiche a cavallo tra passato e attualità del Paese nel contesto dello scacchiere mediorientale
Andrea Tornielli e Roberto Cetera
È un libro dal titolo, forte, provocatorio, scomodo. Un libro che fa discutere. Professoressa Foa, lei ha un prestigioso passato di insegnante universitaria di Storia, alla Sapienza di Roma, ed in particolare di Storia dell’Ebraismo. Il suo ultimo libro, ‘Il suicidio di Israele’ (Laterza 2024, euro 15), ha un titolo così forte che forse può essere forse usato solo da chi viene da quella storia e da quel popolo.
Perché lei crede che Israele corra il rischio del suicidio?
Quando parlo di suicidio penso innanzitutto ad un suicidio anche fisico, territoriale. Cioè io non credo che Israele riuscirà a vincere contro tutti i nemici con cui si trova a combattere su più fronti. A cominciare dall’ Iran che rimane sullo sfondo dei vari fronti. Certo, tireremmo un sospiro di sollievo se ci fosse un cambio di regime a Teheran, ma non penso proprio che sarà l’attuale primo ministro israeliano a realizzarlo. Senza contare che l’idea che lui ha in mente per Israele ha molti punti di contatto con certe teocrazie. Il secondo piano a cui mi riferisco è quello del suicidio politico: Israele è isolato da tutto il resto del mondo. L’antisemitismo cresce ovunque, anche se in Israele questo rileva poco perché riguarda gli ebrei della diaspora, anzi sollecita questa rappresentazione di essere soli contro tutto il mondo pervaso dall’antisemitismo. E poi c’è anche un suicidio morale, un suicidio etico. Vediamo con sgomento che quelli che nobilmente avevamo manifestato ogni sabato contro Netanyahu e la sua riforma della giustizia, ora tacciono, forse perché ancora sotto il trauma del 7 ottobre. Certo è che ora è in ballo il destino di Israele. E non va sottovalutato un clima di repressione interna, una tendenza verso l’autoritarismo, che si accompagna alla guerra. E a cui solo pochissimi gruppi sembrano opporsi.
Tra i vari aspetti che del suo libro c’è preminente quello del rapporto tra Sionismo e Colonialismo, che lei analizza sia dal punto di vista storico che da quello dell’attualità. E si sofferma anche sul carattere antropologico del conflitto. La matrice europea del Sionismo è vissuta dagli arabi come un’espressione di presunta e imposta superiorità culturale, civile e valoriale. Cioè appunto colonialista. A margine di un’intervista con il nostro giornale, lo scorso anno il presidente palestinese Mahoumud Abbas ci confidò che un futuro di pace sarebbe stato agevolato dalla prevalenza in Israele della componente ebraica sefardita.
Ci sono storici che parlano addirittura di un colonialismo interno ad Israele, nei primi anni dell’arrivo degli ebrei sefarditi, dei Mizrahim, dai paesi arabi o del vicino oriente. Le cose che vi ha detto Abu Mazen mettono in evidenza quello che scrive uno storico recente Derek Penslar sulla radice dell’idea di colonialismo. Il colonialismo di Israele non è simile al colonialismo classico europeo. Non ci sono stati che lo guidino. Più che con le armi si è originato con l’acquisto delle terre. E Penslar infatti dice che i palestinesi parlano di colonialismo, perché percepiscono che Israele è il portatore di un’idea di supremazia europea. E questo in effetti è evidente, fin dai discorsi di Ben Gurion, e, come dicevo, anche nel modo in cui sono stati trattati gli ebrei provenienti dai paesi arabi. Un po’ paradossalmente poi i palestinesi vengono considerati dagli altri arabi un popolo maggiormente acculturato, di studiosi, di scrittori, di poeti, di giovani che vanno a studiare nelle università europee. Forse l’idea di una supremazia nasce dal deficit di democrazia che ha sempre caratterizzato le istituzioni palestinesi. Non si vota in Palestina da quasi 20 anni. Ma se si pensa che probabilmente le elezioni avrebbero portato al potere Hamas, potremmo dire che si può vivere anche con un deficit di democrazia. Io penso, in relazione alla vostra domanda, che sì, l’idea della supremazia europeista condizioni molto la percezione di un Israele colonialista. Poi nella storia reale elementi di iniziativa colonialista non sono mancati, a cominciare dalla prima guerra del 1948, ‘guerra di liberazione’ per gli ebrei e ‘Nabka’ (il disastro) per gli arabi. E nondimeno nel 1967 con la colonizzazione della Cisgiordania e di Gaza. Non ho dubbi comunque nel condividere l’idea che il carattere anche antropologico del conflitto sia molto importante, e troppo spesso sottaciuta in favore della dimensione solo politica o militare. Che il superamento di questo pregiudizio possa poi produrre un solo stato in cui le due etnie convivano pacificamente mi sembra abbastanza improbabile oggi.
Nel libro si parla poi di un altro grande tema, che è la piaga secolare dell’antisemitismo. Un atteggiamento e una pratica che hanno attraversato la storia europea scrivendone pagine terribili e incancellabili alla memoria. Nel libro lei sostiene che si va sempre più verso un’identificazione tra antisemitismo e antisionismo. Questo costituisce un problema, perché ogni volta che si critica la politica di Israele e del suo governo si rischia di essere tacciati di antisemitismo.
Sì, è vero. È un atteggiamento sempre più ricorrente, che si esprime in quella frase accusatoria ‘ti interessi solo degli ebrei morti e non di quelli ancora vivi’, cioè pensa ad Israele e non solo alla Shoah. In verità anche diversi intellettuali ebrei, sia israeliani che americani, hanno denunciato la facile e approssimativa identificazione corrente tra antisemitismo e antisionismo. Certo che vi sono rapporti tra antisionismo ed antisemitismo, ma il problema è cosa si intenda per sionismo. O forse per sionismi, perché ne esistono diverse – e a volte molto differenti – declinazioni. Oggi prevale l’equivalenza tra sionismo e politica del governo di Israele. In origine sionismo indicava l’aspirazione ad uno stato; dal momento in cui lo stato si è creato esiste piuttosto la politica dello stato, cioè la politica di Israele. È vero che molte espressioni di antisionismo hanno assunto le forme di un deprecabile antisemitismo, basti guardare a certi slogan delle manifestazioni dei giovani. E sicuramente l’antisemitismo è una brutta bestia che va sradicata sul nascere. Però, io credo, che prima ancora che su questa pseudo-ideologia nefasta, l’enfasi andrebbe posta su Gaza, sui troppi morti di Gaza, e prima ancora sul 7 ottobre. Non a caso in Israele non si parla di antisemitismo, si parla della guerra. È un problema che riguarda essenzialmente la diaspora. E dico che – forse su questo alcuni non saranno d’accordo – se in Europa si parla molto di antisemitismo e per evitare di parlare della guerra a Gaza.
L’ex presidente israeliano Rivlin, in un discorso di qualche anno fa, ebbe a dire che in Israele sono tornate le tribù di origine biblica, cioè che la società israeliana è sempre più multiforme, se non proprio divisa. Lei nel libro scrive che le tribù, in fondo, ci sono sempre state; sono soltanto cambiate. Non più solo la divisione tra ashkenaziti e sefarditi, ma ora anche i settlers nazionalisti religiosi e messianici, e poi la presenza sempre crescente degli haridim. Tutto il mondo è cambiato negli ultimi anni, ma la società è cambiata più rapidamente. E forse questo è il motivo principale della sua crisi. Qual è la sua opinione su questo cambiamento? Perché la religione ha assunto un peso così forte, così determinante, anche sulla politica?
Bisogna intanto distinguere la religiosità degli haridim da quella dei nazionalisti religiosi. Che dicono di agire sulla spinta di Dio, realizzando il volere del Signore. Come sosteneva Baruch Goldstein, un assassino seriale, colpevole della strage di Hebron nel 1994, o il suo ispiratore il rabbino Meir Kahane. O quel colono Yigal Amir che uccise Rabin nel 1995. E’ una esacerbazione della religione, ma strettamente connaturata al nazionalismo. In realtà la destra storica sia sionista che israeliana, anche nelle sue componenti più radicali non aveva questo tipo di caratteristiche religiose. Questa deriva religiosa, erede del sionismo revisionista di Yabotinsky, in realtà nasce solo dopo il 1967. Cioè dopo l’ubriacatura seguita alla conquista di Gerusalemme, e all’avvento dei coloni chiamati ad insediarsi nei territori occupati. Tutti abbiamo visto nella Cisgiordania occupata questi coloni, con la kippà all’uncinetto e il mitra a tracolla, che spesso spalleggiati dai militari, spadroneggiano e commettono violenze. Spaventa che dopo il 7 ottobre il governo abbia distribuito loro migliaia di armi automatiche. Sono ormai 700mila, e con i due ministri Smotrich e Ben Gvir condizionano le decisioni del governo, perché senza i loro voti Netanyahu non avrebbe una maggioranza parlamentare. Sono destinati a crescere di numero e di peso, perché, a differenza di quanto avviene a Tel Aviv, fanno molti figli.
Questo processo ha vissuto un punto di svolta nel 2018 con l’approvazione della legge costituzionale denominata ‘basic law’, (Israele non ha una costituzione, ma ha 14 leggi di rango costituzionale; ndr), con la quale è stata sancita l’ebraicità dello stato d’ Israele. Una legge che in Occidente non ha meritato la giusta attenzione per i rischi e le implicazioni connesse.
Esatto. Intanto è diminuito il ruolo della lingua araba. Prima Israele aveva tre lingue ufficiali, ebraico, arabo e inglese: ora è stata data preminenza all’ebraico. In secondo luogo cambiano i caratteri della democrazia, nel senso che Israele diviene uno stato solo parzialmente democratico per i cittadini non ebrei. Quindi per i cittadini israeliani arabi e musulmani, o cristiani o drusi. Gli arabo-israeliani già nel periodo dal 1948 al 1967 avevano subito forti limitazioni alla loro cittadinanza. Certo non può definirsi un regime di apartheid. È ordinario che tu vada in un ospedale israeliano e possa trovare un primario palestinese. Ma questo in Israele, se invece vai nella West Bank in effetti trovi un regime che si avvicina molto all’apartheid. Una cosa, che trovo assurda, e che sembra emulata dal fascismo italiano, è l’istituzione del confino. Cioè quella ‘detenzione amministrativa’ per cui si può essere arrestati per un tempo indeterminato, senza avere un processo, e senza aver commesso un reato, ma solo per l’eventualità che possa essere commesso in base alle tu convinzioni politiche. E non parliamo delle condizioni di detenzione. Perché anche in Israele è andata affermandosi – come in altri paesi magari cristiani, musulmani, o induisti – l’idea di una liceità della vendetta, come surrogato della giustizia. L’idea originaria della guerra a Gaza era quella legittima dell’autodifesa e della neutralizzazione di Hamas. Ma è durata due settimane. Dopo di che è prevalsa la vendetta, che è ancora tragicamente in corso.
Lei parlava prima dell’inasprirsi delle violenze scatenate dal fenomeno dei settlers, dei coloni. Il governo sembra assecondarli al punto che nella nomenclatura ufficiale non si parla più di ‘West Bank’ o ‘Cisgiordania’ ma di ‘Samaria’ e ‘Giudea’. I termini biblici che evocano l’aspirazione alla Eretz Israel, la Grande Israele. La presenza così massiccia dei coloni rende oggi difficile immaginare la creazione di due stati con i confini del ’67. Ma anche l’opzione dell’unico stato in cui far convivere pacificamente i due popoli sembra, dopo il 7 ottobre, pura utopia.
La soluzione dell’unico stato era venuta fuori solo recentemente. Sostenuta dal mondo del sionismo umanista. Oggi è assolutamente improponibile per la marea di odio che si è scatenata da entrambe le parti. Io continuo a pensare che l’unica opzione sia quella dei due stati. Io non penso che possa esistere un’Israele libera, ancora democratica, priva di paure e angosce, senza la presenza ai suoi confini di uno stato palestinese. Certo questo richiede un ricambio di leadership anche da parte palestinese. Prima del 7 ottobre se ne parlava, si facevano i nomi di Barghouti e di altri. Ora le ipotesi tacciono. Le sole parole che contano sono quelle della guerra.
Come media vaticani cerchiamo di sostenere le ragioni di chi soffre e di essere eco alle parole di Papa Francesco che continua a richiamare l’opportunità di “onorevoli compromessi e oneste trattative”. Ma viviamo in un mondo che sembra sordo questi appelli. Manca una proposta ideale e creativa delle diplomazie per la pace.
Senza la pace non si può ricostruire l’immensa distruzione che appare oggi ai nostri occhi. Che non è solo distruzione materiale, ma lacerazione degli spiriti feriti dalla violenza e dalla morte. Ma non c’è altra via. E ci vorranno tanti anni per riparare questi animi feriti e violentati: generazioni.
Questo è un punto essenziale: quando cammini per le strade di Gerusalemme questa ostilità reciproca la respiri ad ogni passo, ad ogni sguardo. Se gli accordi di Oslo sono falliti lo si deve anche a questo: sono rimasti accordi tra elìte politiche, mai metabolizzati dalle due società. Quel 2% di cristiani che vivono in terra santa si distinguono per essere gli unici che parlano di pace. Il presidente israeliano Herzog in un’intervista al nostro giornale ebbe a dire che le scuole cristiane sono un’eccellenza perché vi si insegna la pace ai giovani.
Sì, ricordo di aver visitato anni fa una scuola gestita da suore a Gerusalemme e ho avuto la medesima bella impressione di un luogo di dialogo, rispetto e pace
Un’ultima domanda: nel nostro lavoro in Israele registriamo una vivace dialettica tra posizioni diverse che non troviamo nel mondo ebraico della diaspora, salvo poche eccezioni. Così come le osservazioni libere e intelligenti che troviamo sulla stampa israeliana, su Haaretz o su Times of Israel, si fa più fatica a ritrovarle sui media italiani.
Haaretz è un giornale prezioso per capire cosa succede veramente. Sì, la diaspora europea, e quella italiana in modo particolare, preferisce tacere e sostenere Israele nel bene e nel male. Insiste sul pericolo che corre Israele, e non su tutto il resto, cioè su una guerra assurda. E non recepisce minimamente le suggestioni che pure arrivano da Israele. Quello che mi dispiace è che questo favorisce l’antisemitismo. Perché non può essere che criticare il governo di Netanyahu, di Ben Gvir e Smotrich sia considerato un’espressione di antisemitismo. Perché se tutto è antisemitismo, alla fine niente è antisemitismo.