Michele Raviart – Città del Vaticano
Hanno seguito la sentenza d’appello per Ratko Mladic in diretta tv dal Memoriale di Potocari, alle porte di Srebrenica, le vedove e le madri delle vittime del massacro del luglio 1995, quando in cinque giorni circa 8000 persone, uomini e ragazzi, furono uccisi dall’esercito serbo bosniaco durante la guerra del 1992-1995. Un verdetto, quello pronunciato dal Tribunale dell’Aia che ha preso le funzioni del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia delle Nazioni Unite, e che ha confermato il carcere a vita per l’ex generale condannato per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Una sentenza che, per le vittime, ha fatto giustizia di quello che è considerato l’episodio di violenza più grave in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.
Le reazioni nei Balcani
La sentenza è stata accolta positivamente dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, ponendo fine a 11 mila giorni di processi e oltre 90 condanne. Il sindaco di Sarajevo, Benjamina Karic, ha ribadito “l’importanza delle sentenze dei tribunali internazionali e dei fatti da loro accertati in modo incontestabile”. Milorad Dodik, membro serbo e presidente di turno della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, ha parlato invece di una sentenza “che non ha niente a che vedere con la giustizia e non fa altro che accrescere la sfiducia del popolo serbo nella giustizia internazionale”. Il presidente serbo Aleksander Vucic ha parlato di “giustizia selettiva”, perché nessuno è stato dichiarato colpevole per i crimini contro i serbi, mentre il governo croato ha espresso soddisfazione per la conferma dell’ergastolo. “Una condanna attesa e proporzionata ai crimini commessi”, si legge nel comunicato, tra cui “il genocidio e la pulizia etnica dei bosniaci musulmani e dei croati”, pur sottolineando come Mladic non sia stato condannato anche per i crimini commessi in Croazia.
Un passo decisivo per la rinascita del Paese
Tra i sopravvissuti di Srebrenica, c’è anche Semso Osmanòvic, che allora aveva 13 anni e riuscì a fuggire con la madre e la sorella verso la base Onu di Potočari. Nel 1999 è arrivato in Italia, dove ha studiato per vent’anni e ora è docente di sociologia all’università di Trieste. Questo il suo commento rilasciatio a Vatican News.
Prof. Osmanòvic, quale il suo commento alla sentenza?
È stata fatta giustizia. Finalmente dopo 25 anni posso tornare a Srebrenica, a casa mia, nella mia cittadina. Posso dire anche che mi sento rinato dopo questa sentenza. E’ stato un periodo lungo, ma la Corte internazionale ha dimostrato che nessuno è sopra la legge, nessuno può fare un genocidio, scappare e non venire punito per i suoi crimini. Per quanto riguarda la Bosnia è un forte messaggio da parte della comunità internazionale per la riconciliazione, la pace e il futuro.
Lei è uno dei sopravvissuti a Srebrenica. Che cosa significa per lei questa sentenza?
Io e la mia famiglia finalmente potremo vivere come qualsiasi altro cittadino. Potrò cercare un lavoro non so, in comune o a scuola. Ho studiato 20 anni in Italia, ho un dottorato di ricerca, ma vedo il mio futuro in Bosnia, a Srebrenica. Prima non era possibile perché non sapevamo cosa sarebbe successo. Mladic viene condannato o non viene condannato? Siamo uomini, abbiamo i nostri dubbi, abbiamo le nostre paure. Da adesso invece non ho più nessun dubbio, ho piena fiducia nelle istituzioni internazionali e colgo l’occasione per ringraziare tutti i giudici che hanno fatto questo grande lavoro.
In che modo se Mladic non fosse stato condannato sarebbe stato impossibile tornare in Bosnia? Come pensa che questa sentenza sarà accolta nella vita quotidiana, politica e sociale del Paese?
Ratko Mladic è stato il capo dell’esercito serbo bosniaco. Adesso saranno processati anche quelli che erano sotto la sua responsabilità. Adesso anche loro dovranno affrontare un tribunale statale a Sarajevo. Noi non possiamo vivere a Srebrenica e vedere ogni giorno quelli che hanno ucciso mio nonno, mio fratello, i miei amici più stretti e i parenti. Io non vedevo il mio futuro a Srebrenica. Adesso sì. Sarà un processo lungo. Sono passati 25 anni, ma ci vorrà ancora qualche anno perchè in Bosnia si raggiunga una tranquillità e una piena fiducia tra i popoli della Bosnia e tra la gente.
Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha detto che questa è la responsabilità di una persona e non di un gruppo. Anche questo può aiutare la pacificazione e a superare queste ferite?
E’ giusto. Condivido in pieno. La responsabilità è individuale. Non si può attribuire alla collettività, ad un popolo, in questo caso quello serbo-bosniaco. I miei vicini di casa erano serbi, croati, rom, ebrei. Questa è la Bosnia che io sogno di rivedere e che deve rinascere di nuovo. Noi siamo un Paese multietnico, multireligioso, multiconfessionale.
Con questa condanna finisce l’esperienza del Tribunale delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia. Che esempio può dare rispetto a quelle situazioni analoghe che purtroppo si verificano e si sono continuate a verificare nel mondo?
Credo che il Tribunale abbia svolto un grande lavoro e ha mandato un grande messaggio a tutta l’umanità: “mai più genocidio” e, speriamo “mai più guerre”. Secondo me senza questo lavoro del tribunale dell’Aia non si poteva raggiungere una pace duratura in Bosnia e in tutti i Balcani. Io non vedo l’ora che la Bosnia entri nell’Unione Europea, ma anche la Serbia, la Macedonia del Nord e gli altri Paesi dell’area, perché questo è il nostro futuro, perché l’ Europa è unita nelle sue differenze.
Per la riconciliazione qual è stato il contributo della visita di Papa Francesco a Sarajevo nel 2015?
Credo che Papa Francesco abbia mandato un grande messaggio con la sua visita a Sarajevo, quando l’ha chiamata la “Gerusalemme d’ Europa”. La sua missione è importante per tutto il mondo e per tutta l’umanità, abbiamo bisogno di leader come lui.