Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Ricca di niente, povera di tutto, non autosufficiente e per questo sempre in dialogo anche con chi professa un credo diverso, viva e aperta al futuro, mai chiusa nel proprio guscio solo perché di piccolo numero. Il Papa, al suo primo appuntamento dell’ultimo giorno di viaggio, incontra la Chiesa del Kazakhstan, che esorta a non cadere nella corruzione e nella falsità e a garantire maggiore spazio ai laici, in modo da non “clericalizzarsi”.
Una famiglia di musicisti
Vescovi, sacerdoti e diaconi, consacrate e consacrati, seminaristi e operatori pastorali, sono riuniti nella cattedrale di Nur-Sultan. Una struttura dall’architettura semplice, dove Francesco, giunto in sedia a rotelle, è accolto con applausi, fiori e con la musica di violini, flauti, arpe e della dombra, il tipico strumento kazako a cui aveva fatto riferimento nel suo primo discorso. A suonarli è un’unica famiglia, con copricapi di pelliccia e abiti tradizionali: 23 persone, tre figli naturali, il resto adottati, tra cui una bambina che ha vinto la disabilità proprio grazie alla musica.
Nessuno è straniero
Il Papa sorride di fronte a queste immagini, simbolo di una Chiesa “fatta di tanti volti, storie e tradizioni diverse, tutte unite dall’unica fede in Cristo Gesù”. “La maggior parte di noi sono stranieri”, afferma il Pontefice, riprendendo le parole del saluto di monsignor Mumbiela Sierra, presidente della Conferenza episcopale dell’Asia Centrale.
È vero, perché provenite da luoghi e Paesi differenti, ma la bellezza della Chiesa è questa: siamo un’unica famiglia, nella quale nessuno è straniero. Lo ripeto: nessuno è straniero nella Chiesa, siamo un solo Popolo santo di Dio arricchito da tanti popoli!
Memoria e promessa
La diversità, dunque, è ricchezza, ripete Francesco, che elenca le direttrici sulle quali la Chiesa kazaka deve muovere i suoi passi: “Eredità e promessa”, intese come memoria e futuro.
L’eredità del passato è la nostra memoria, la promessa del Vangelo è il futuro di Dio che ci viene incontro.
La tentazione dell’indietrismo
Francesco torna indietro ai primordi del cristianesimo nell’Asia centrale, con l’evangelizzazione dei primissimi secoli portata avanti da tanti evangelizzatori e missionari che si sono spesi per diffondere la luce del Vangelo, fondando comunità, santuari, monasteri e luoghi di culto. “C’è dunque un’eredità cristiana, ecumenica, che va onorata e custodita, una trasmissione della fede che ha visto protagoniste anche tante persone semplici, tanti nonni e nonne, padri e madri”, rimarca il Papa. “Nel cammino spirituale ed ecclesiale non dobbiamo smarrire il ricordo di quanti ci hanno annunciato la fede”, aggiunge.
Facciamo però attenzione: non si tratta di guardare indietro con nostalgia, restando bloccati sulle cose del passato e lasciandoci paralizzare nell’immobilismo: questa è la tentazione dell’indietrismo.
La fede, evento sempre attuale
Quella di cui parla il Papa è una “memoria viva”, senza la quale fede, devozioni e attività pastorali “rischiano di affievolirsi, di essere come dei fuochi di paglia, che bruciano subito ma si spengono presto”. “Quando smarriamo la memoria, si esaurisce la gioia. Viene meno anche la riconoscenza a Dio e ai fratelli, perché si cade nella tentazione di pensare che tutto dipenda da noi”, dice il Pontefice. Guardando all’eredità del passato, aggiunge, vediamo che “la fede non è stata trasmessa di generazione in generazione come un insieme di cose da capire e da fare, come un codice fissato una volta per tutte”. No, “la fede è passata con la vita”. Quindi “la fede non è una bella mostra di cose del passato, ma un evento sempre attuale”.
Essere piccoli è una grazia
Con questo sguardo bisogna proiettarsi al futuro, alla promessa del Vangelo. Un futuro che potrebbe apparire arduo “davanti alle tante sfide della fede – specialmente quelle che riguardano la partecipazione delle giovani generazioni –, così come dinanzi ai problemi e alle fatiche della vita e guardando ai propri numeri, nella vastità di un Paese come questo, ci si potrebbe sentire ‘piccoli’ e inadeguati”.
Ecco, proprio il Vangelo a capovolgere la logica dei numeri: “Essere piccoli, poveri in spirito, è una beatitudine”, dice il Papa.
C’è una grazia nascosta nell’essere una Chiesa piccola, un piccolo gregge; invece che esibire le nostre forze, i nostri numeri, le nostre strutture e ogni altra forma di rilevanza umana, ci lasciamo guidare dal Signore e ci poniamo con umiltà accanto alle persone.
Insieme nel dialogo
Essere piccoli ricorda inoltre che “non siamo autosufficienti”, rileva il Papa; abbiamo, cioè, bisogno di Dio e degli altri, inclusi fratelli e sorelle di altre confessioni. “Solo insieme, nel dialogo e nell’accoglienza reciproca, possiamo davvero realizzare qualcosa di buono per tutti”.
È il compito peculiare della Chiesa in questo Paese: non essere un gruppo che si trascina nelle cose di sempre o si chiude nel suo guscio perché si sente piccolo, ma una comunità aperta al futuro di Dio, accesa dal fuoco dello Spirito
Scuole di sincerità
Papa Francesco rilancia quindi l’invito alla “fraternità tra di noi, che ci facciamo carico dei poveri e di chi è ferito dalla vita, ogni volta che nei rapporti umani e sociali testimoniamo la giustizia e la verità, dicendo ‘no’ alla corruzione e alla falsità”.
Le comunità cristiane, in particolare il seminario, siano “scuole di sincerità”: non ambienti rigidi e formali, ma palestre di verità, di apertura e di condivisione. E nelle nostre comunità – ricordiamoci – siamo tutti discepoli del Signore: tutti discepoli, tutti essenziali, tutti di pari dignità
Più spazio ai laici
Su questa scia, il Pontefice esorta a dare maggiore spazio ai laici: “Vi farà bene, perché le comunità non si irrigidiscano e non si clericalizzino”. “Una Chiesa sinodale, in cammino verso il futuro dello Spirito, è una Chiesa partecipativa e corresponsabile. È una Chiesa capace di uscire incontro al mondo perché allenata nella comunione”, rimarca il Papa.
L’invito è “a diventare uomini e donne di comunione e di pace, che seminano il bene ovunque si trovano”. Uomini e donne che vivono e trasmettono gioia, respingendo “paure e lamentele”, non lasciandosi “irrigidire da dogmatismi e moralismi”.
L’esempio del beato Bukowiński
In conclusione del suo discorso, Papa Francesco ricorda il beato Bukowiński, sacerdote che spese l’esistenza per curare malati, poveri ed emarginati, pagando sulla propria pelle la fedeltà al Vangelo con la prigione e i lavori forzati. “Mi hanno detto che, ancora prima della beatificazione, sulla sua tomba c’erano sempre fiori freschi e una candela accesa. È la conferma che il Popolo di Dio sa riconoscere dove c’è la santità, dove c’è un pastore innamorato del Vangelo”. Il suo esempio sia un monito per vescovi e sacerdoti:
Non essere amministratori del sacro o gendarmi preoccupati di far rispettare le norme religiose, ma pastori vicini alla gente, icone vive del cuore compassionevole di Cristo
Francesco ricorda anche i martiri greco-cattolici, il vescovo monsignor Budka, il sacerdote don Zarizky e Gertrude Detzel, di cui si è aperto il processo di beatificazione. “Hanno portato l’amore di Cristo nel mondo. Voi siete la loro eredità: siate promessa di nuova santità!”, afferma.
L’affidamento a Maria
Da qui la promessa di accompagnare il popolo kazako con la preghiera e l’affidamento a Maria Santissima, venerata nel Paese come Regina della pace. All’inizio dell’incontro una toccante immagine della Vergine, con in braccio un bambino, viene svelata dinanzi al Papa. L’ha dipinta un pittore musulmano; anche questo un segno di fratenità.