Il Papa: un futuro di pace se camminiamo da fratelli guardando lo stesso Cielo

Vatican News

Debora Donnini – Città del Vaticano

Da questo luogo benedetto che “ci riporta” alla nascita delle “nostre religioni” il Papa eleva un forte e intenso discorso all’incontro interreligioso che si tiene a Ur dei caldei, seguito dalla Preghiera dei figli di Abramo, che confidò in Dio e credendo alla promessa partì dalla Mesopotamia verso Canaan. Un incontro destinato a rimanere nella storia, quello odierno, in cui la sfida per la pace che il Papa lancia riguarda una prospettiva di pace per tutta la regione mediorientale e, in generale, l’umanità. Un sogno di San Giovanni Paolo II che non poté realizzarsi, quello di venire in questa terra, e che oggi si compie. All’ombra di una tenda bianca vicino alla millenaria ziggurat sumerica di Ur, risalente al III millennio a. C. e patrimonio dell’Unesco, siede il Papa con rappresentanti delle religioni, e il raccoglimento, i canti, l’emozione, gli sguardi si intrecciano con le parole, la preghiera e le pietre vive di questi luoghi. Intonata una Lettura tratta dal libro della Genesi e un brano del Corano, vengono offerte alcune testimonianze: due giovani, una donna di religione sabea mandea, un uomo di religione musulmana.

L’offesa più blasfema: profanare il nome di Dio odiando il fratello

La rotta che il Papa indica è quella di seguire le orme di Abramo, padre nella fede di ebraismo, cristianesimo e islam, che guardò il cielo e camminò sulla terra. Lo stesso sono chiamati a fare i credenti di ogni religione:

Fu proprio attraverso l’ospitalità, tratto distintivo di queste terre, che Abramo ricevette la visita di Dio e il dono ormai insperato di un figlio. Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra.

Dall’Iraq, terra dove si sono addensate “le nubi oscure del terrorismo, della guerra e della violenza”, da un Paese che ha visto le sofferenze di tutte le comunità etniche e religiose, il Papa eleva, quindi, la sua preghiera per quanti le hanno subite. Ricorda che educare i giovani alla fraternità sarà il “vaccino più efficace per un domani di pace” e rivolge il suo forte invito ribadendo che “chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti” ed è chiamato a mostrare la paternità di Dio attraverso la fraternità:

Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio!

Soprattutto ai credenti spetta convertire gli strumenti di odio in quelli di pace

“Qui”, prosegue, Abramo “sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio” che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato “ogni secolo e latitudine”: alzando lo sguardo alle stelle del cielo “vide la promessa della sua discendenza, vide noi”. Una promessa che dunque si è realizzata: “oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo”. Una promessa che, dunque, interpella tutti con risvolti concreti.

Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa.

Le sofferenze delle comunità perseguitate

Ricordando le ferite di questa terra, Francesco menziona in particolare degli yazidi, che hanno pianto la morte di molti uomini e visto “migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate”. “Oggi preghiamo – afferma – per quanti hanno subito tali sofferenze, per quanti sono ancora dispersi e sequestrati, perché tornino presto alle loro case. E preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l’uomo libero di contemplare il Cielo per il quale è stato creato”. Al centro del pensiero del Papa anche il terrorismo, che, rileva, “quando ha invaso il nord di questo caro Paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle e il pensiero va ai giovani volontari musulmani di Mosul, che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese”.

Non ci sarà pace finché gli altri non saranno un “noi”

“La via che il Cielo indica al nostro cammino” è “la via della pace”, ribadisce il Papa:

Non ci sarà pace senza condivisione e accoglienza, senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti, a cominciare dai più deboli. Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità. Chiediamolo nella preghiera per tutto il Medio Oriente, penso in particolare alla vicina, martoriata Siria.

Sono, infatti, le stelle che brillano insieme a illuminare le notti più oscure e, donandoci un messaggio di unità, ricordano che “l’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello”. L’essenza della vera religiosità è infatti “adorare Dio e amare il prossimo”.

Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente, da solo non ce la può fare. E se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene.  Ma i beni del mondo, che a tanti fanno scordare Dio e gli altri, non sono il motivo del nostro viaggio sulla Terra. Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare.

Riferendosi, quindi, ad alcune testimonianze offerte all’incontro, il Papa richiama le parole di Dawood e Hasan, un cristiano e un musulmano che hanno studiato e lavorato insieme, scoprendosi fratelli. Un esempio per tutti per fare insieme qualcosa di buono e concreto, rimarca, pensando soprattutto al destino dei giovani, che sono il presente e il futuro, “che non possono vedere i loro sogni stroncati dai conflitti del passato! È urgente educarli alla fraternità, educarli a guardare le stelle. È una vera e propria emergenza”, ricorda.

A dare la propria esperienza anche il professor Ali Thajeel che ha tra l’altro raccontato il ritorno dei pellegrini in questa città. “È importante – nota – peregrinare verso i luoghi sacri: è il segno più bello della nostalgia del Cielo sulla Terra”. Forte il suo invito, dunque, a “custodire i luoghi sacri” e a renderli “oasi di pace e d’incontro per tutti”. “Il nostro essere oggi qui sulle sue orme sia segno di benedizione e di speranza per l’Iraq, per il Medio Oriente e per il mondo intero”, dice ricordando che “il Cielo non si è stancato della Terra: Dio ama ogni popolo, ogni sua figlia e ogni suo figlio!”.

Nessuno si slava da solo

Il discorso del Papa è, dunque, intriso dell’esperienza di Abramo con l’esortazione a fare come lui un cammino in uscita abbandonando gli attaccamenti. Nessuno si salva da solo come la pandemia ha fatto comprendere: “il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti””.

Nelle tempeste che stiamo attraversando non ci salverà l’isolamento, non ci salveranno la corsa a rafforzare gli armamenti e ad erigere muri, che anzi ci renderanno sempre più distanti e arrabbiati. Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore.

L’ospitalità accogliente

Bisogna, invece, remare tutti dalla stessa parte, specie nelle tempeste. Quindi il richiamo alla testimonianza della signora Rafah che ha raccontato l’eroico esempio di Najy, della comunità sabeana mandeana, che perse la vita nel tentativo di salvare la famiglia del suo vicino musulmano. “Quanta gente qui, nel silenzio e nel disinteresse del mondo, ha avviato cammini di fraternità!”, esclama il Papa che ringrazia Rafah, che ha raccontato pure le indicibili sofferenze della guerra, “per aver condiviso con noi la ferma volontà di restare qui, nella terra dei tuoi padri. Quanti non ci sono riusciti e hanno dovuto fuggire, trovino – afferma – un’accoglienza benevola, degna di persone vulnerabili e ferite”.

Testimonianze

Toccanti, infatti, le testimonianze che hanno preceduto il suo discorso. La signora Rafah Husein Baher di religione sabea mandea aveva ricordato come l’ingiustizia abbia colpito tutti gli iracheni e il sangue di tutti sia stato versato. Hasan e Dawood, rispettivamente un musulmano e un cristiano di Bassora, sono giovani studenti che lavorano insieme part-time. “Ci piacerebbe – dice Dawood – che molti altri iracheni vivessero la nostra stessa esperienza. Noi non vogliamo la guerra, la violenza, l’odio: noi vogliamo che le persone nel nostro Paese lavorino insieme e siano tra loro amiche”. Quindi la commossa esperienza di Ali Zghair Thajeel, mussulmano sciita di Ur e professore all’Università di Nassiriya. Ha collaborato con la Chiesa per i pellegrinaggi a Ur. “La chiave di volta – afferma – è stato l’incontro con il cardinale Sako, che diede istruzioni ai suoi vescovi ausiliari e ai sacerdoti di accompagnare pellegrinaggi organizzati a Ur. Tutti questi sforzi hanno contribuito a far sì che siano arrivati molti gruppi di pellegrini per celebrare la Messa e pregare in questa città storica. Ricorda anche che i fratelli della religione Sabea Mandea, che furono i primi a partecipare a questa iniziativa e ad accogliere i pellegrini e quando monsignor Warduni accompagnò, nel 2013, una delegazione dal Vaticano guidata da monsignor Andreatta.  La Chiesa irachena, sottolinea poi, ha riservato lo stesso trattamento a tutti gli iracheni indipendentemente dalla loro appartenenza o etnia, specialmente durante le crisi nelle quali ci siamo trovati a doverci confrontare. In tali difficili circostanze la Chiesa è sempre stata la prima ad aiutare i bisognosi e, in collaborazione con la Caritas-Iraq, ha fornito cibo e medicine alle città di Jebayesh, Fuhood, Shatrah e Gharraf, oltre che a Nassiriya”.