Il Papa tra gli ebrei slovacchi: la blasfemia peggiore è usare il nome di Dio per atti disumani

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Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Entra a capo chino, incedendo lentamente, Papa Francesco, nella Piazza Rybné námestie di Bratislava. La “Piazza dei Pesci”, luogo di storia e di memoria per l’intera Slovacchia; luogo di dolore per la comunità ebraica che qui, dinanzi al Memoriale bronzeo che commemora le vittime della Shoah, sotto l’ombra della scritta “Zachor” (in ebraico “ricorda!”), piange i propri cari spazzati via dalla furia nazista. A questa comunità, dimezzata dopo la Seconda guerra mondiale, il Papa si presenta “come pellegrino”, venuto “per toccare questo luogo ed esserne toccato”. Da qui lancia, come ieri a Budapest, un grido contro ogni forma di antisemitismo e perché non si ripeta mai più la “profanazione” dell’immagine di Dio, quegli atti disumani perpetrati, allora e ancora oggi, contro la persona umana.

Testimonianze commosse 

Francesco si muove tra passato e futuro nel suo discorso, pronunciato dal palco allestito sotto un tendone bianco che ripara dal sole. Le sue parole seguono quelle di benvenuto del presidente dell’Unione Centrale delle Comunità Religiose Ebraiche nella Repubblica Slovacca e a due testimonianze. Anzitutto quella commovente di un sopravvissuto, il professor Lang, che racconta la drammatica epopea vissuta dalla sua famiglia, dalla deportazione alla liberazione, e ricorda pure il grande lavoro compiuto dall’allora incaricato d’Affari della Nunziatura in Slovacchia, monsignor Giuseppe Burzio, “che instancabilmente cercò di fermare l’antisemitismo del regime micidiale di quell’epoca”, laddove “nessun politico slovacco si oppose allora apertamente a quel regime”. Interviene poi suor Samuela, della Congregazione delle Orsoline, ricordando che, negli anni della persecuzione, il suo ordine ha aiutato bambini ebrei nascondendoli e facendoli fuggire dal Paese.

Luogo benedetto   

Prendendo la parola, il Papa ricorda anzitutto ricorda l’importanza della Piazza che, dice, “mantiene vivo il ricordo di un ricco passato” per secoli parte del quartiere ebraico, qui ha lavorato anche il celebre rabbino Chatam Sofer e qui sorgeva la sinagoga Neolog, accanto alla Cattedrale dell’Incoronazione. Già attraverso l’architettura si esprimeva “la pacifica convivenza delle due comunità, simbolo raro e di grande portata evocativa, segno stupendo di unità nel nome del Dio dei nostri padri”, osserva il Papa.

Qui avverto anch’io il bisogno, come tanti di loro, di ‘togliermi i sandali’, perché mi trovo in un luogo benedetto dalla fraternità degli uomini nel nome dell’Altissimo

Il nome di Dio disonorato dalla follia dell’odio 

E proprio il nome di Dio è stato “disonorato” con la “follia dell’odio”, durante il secondo conflitto mondiale che vide la morte di 105 mila ebrei slovacchi, deportati e sterminati nei lager nazisti. “E quando poi si vollero cancellare le tracce della comunità, qui la sinagoga fu demolita”, ricorda il Papa. Fu il regime comunista a demolire l’edificio di culto nel 1969, insieme all’intero ghetto, per far posto al Ponte dell’Insurrezione nazionale slovacca, noto anche come Ponte Nuovo.

Sta scritto: “Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Il nome divino, cioè la sua stessa realtà personale, è nominata invano quando si viola la dignità unica e irripetibile dell’uomo, creato a sua immagine. Qui il nome di Dio è stato disonorato, perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri.

Davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da un affronto tragico e inenarrabile, il Papa ammette quindi con “vergogna”: “Quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: ‘Dio è con noi’; ma erano loro a non essere con Dio”.

La memoria non ceda il posto all’oblio

“La vostra storia è la nostra storia, i vostri dolori sono i nostri dolori”, aggiunge Francesco, volgendo lo sguardo verso il Memoriale, cinque metri sulla cui sommità svetta la Stella di David. “La memoria non può e non deve cedere il posto all’oblio, perché non ci sarà un’alba duratura di fraternità senza aver prima condiviso e dissipato le oscurità della notte”. “Questo – afferma il Pontefice – è per noi il tempo in cui non si può più oscurare l’immagine di Dio che risplende nell’uomo”. Bisogna aiutarsi in questo, in un tempo in cui “non mancano idoli vani e falsi che disonorano il nome dell’Altissimo”. Sono il potere e il denaro “che prevalgono sulla dignità dell’uomo”, l’indifferenza di chi “gira lo sguardo dall’altra parte”, le manipolazioni “che strumentalizzano la religione, facendone questione di supremazia oppure riducendola all’irrilevanza”. E ancora, rimarca il Papa, “sono la dimenticanza del passato, l’ignoranza che giustifica tutto, la rabbia e l’odio”.

“Siamo uniti – lo ribadisco – nel condannare ogni violenza, ogni forma di antisemitismo, e nell’impegnarci perché non venga profanata l’immagine di Dio nella creatura umana”

Luci di speranza

In mezzo ai ricordi di tanto male, a Rybné námestie brilla però una luce di speranza. “Qui ogni anno venite ad accendere la prima luce sul candelabro della Chanukia. Così, nell’oscurità, appare il messaggio che non sono la distruzione e la morte ad avere l’ultima parola, ma il rinnovamento e la vita”, dice il Papa. E se la sinagoga è stata demolita, “la comunità è ancora presente” ed “è viva e aperta al dialogo”. “Qui le nostre storie si incontrano di nuovo. Qui insieme affermiamo davanti a Dio la volontà di proseguire nel cammino di avvicinamento e di amicizia”.

In proposito, il Papa spiega di conservare il ricordo dell’incontro a Roma nel 2017 con le comunità ebraiche e si dice lieto che in seguito sia stata istituita una Commissione per il dialogo con la Chiesa cattolica. “È bene condividere e comunicare ciò che unisce. Ed è bene proseguire, nella verità e con sincerità, nel percorso fraterno di purificazione della memoria per risanare le ferite passate, così come nel ricordo del bene ricevuto e offerto”.

Le parole del Talmud

Francesco cita quindi il Talmud 

“Chi distrugge un solo uomo distrugge il mondo intero, e chi salva un solo uomo salva il mondo intero”

“Ognuno conta”, afferma, ringraziando per le porte aperte da entrambe le parti: un simbolo per il mondo di oggi che “ha bisogno di porte aperte”.

In terra slovacca, “terra d’incontro tra est e ovest, tra nord e sud”, auspica infine Francesco, la comunità ebraica continui ad essere “segno di benedizione per tutte le famiglie della terra”. Da qui, l’esortazione ad essere “sempre, insieme, testimoni di pace”, in mezzo alla “tanta discordia che inquina il nostro mondo”. “Shalom!”.

Candele e Kaddish

L’incontro si conclude con l’accensione di alcune candele in memoria delle vittime dell’Olocausto e l’intonazione di un Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche. Francesco ascolta assorto e ad occhi chiusi questo canto in cui si nominano i campi di sterminio di Auschwitz, Mathausen, Treblinka e si ricordano pure i numerosi Giusti delle Nazioni che hanno aiutato gli abrei a fuggire dalla barbarie nazista. Il Pontefice dona poi alla comunità ebraica un piatto in ceramica raffigurante San Pietro. Poi saluta personalmente con una stretta di mano i due testimoni, regalando alla suora orsolina un Rosario. 

Dopo l’incontro in Piazza Rybné námestie, il Pontefice, congedandosi tra gli applausi, si trasferisce in macchina verso la Nunziatura di Bratislava per l’incontro privato, prima con il presidente del Parlamento, Boris Kollár, e poi con il primo ministro, Eduard Heger.