Il Papa in Kazakhstan, vescovo Dell’Oro: bellezza e carità sono la via del dialogo

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Martedì 13 settembre Papa Francesco partirà per il Kazakhstan. Qui, dei 19 milioni di abitanti, il 70% sono di fede musulmana, mentre il 26% è costituito da cristiani, in netta prevalenza ortodossi; i cattolici sono circa 120.000. Un tempo le comunità cattoliche erano formate da diversi gruppi etnici, soprattutto da ex-deportati del regime sovietico, ma dopo l’indipendenza molti di loro sono tornati nei rispettivi Paesi di origine e ancora oggi, a causa della situazione economica, questo fenomeno migratorio continua.

L’attesa dei cattolici, previsti arrivi anche da ex-Repubbliche sovietiche

L’attesa del pontefice tra i fedeli cattolici è forte. Sono distribuiti in 4 diocesi, ciascuna prende la denominazione dalla cattedrale che vi sinsite e non dal territorio geografico (Arcidiocesi di Maria Santissima in Astana – Nur-Sultan, la Diocesi della Santissima Trinità in Almaty, la Diocesi di Karaganda e l’Amministrazione apostolica di Atyrau) per un totale di 70 parrocchie, e sono assistiti da un centinaio di sacerdoti. Sono attesi anche gruppi di pellegrini da San Pietroburgo, da Mosca, da Novosibirsk, da Omsk, e anche dal Kirghizistan, cattolici che vivono in quei Paesi. In questa numericamente minuta realtà ecclesiale c’è un fermento non trascurabile, come spiega da Karaganda monsignor Adelio Dell’Oro, da un territorio diocesano che invece, per estensione, è grande due volte e mezzo l’Italia. È da sette anni e mezzo Pastore qui, dopo averci vissuto dal ’97 come sacerdote Fidei donum. Ci confessa il lavoro ‘immane’ di raccolta delle adesioni ai pellegrinaggi che porteranno i fedeli nella capitale per l’incontro con Francesco, vista proprio la vastità del territorio. 

Ascolta l’intervista a monsignor Dell’Oro

La vastità del territorio kazako pone sfide importanti dal punto di vista dell’evangelizzazione. Alla luce della Costituzione apostolica Praedicate evangelium, che sottolinea l’aspetto missionario della Chiesa in ogni contesto, lei come vive questo stimolo ulteriore in una terra dove ormai opera da moltissimo tempo?

È stata proprio questa la mia più grande preoccupazione. Come tutti sanno, ci sono stati settant’anni di regime sovietico in cui era proibita qualsiasi forma di espressione religiosa e i credenti delle varie religioni, non solo i cattolici, erano come costretti a vivere l’esperienza della fede in modo clandestino. E di quel periodo noi abbiamo delle testimonianze grandi. Per esempio, sei anni fa, a settembre, è stato beatificato un sacerdote che era amico di Papa Wojtyla, tra l’altro, Władysław Bukowiński, che ha fatto 13 anni e mezzo di lager e che poi, quando è stato liberato, proprio a Karaganda, ha svolto un’attività intensa in questo territorio perché non potevano andarsene via. Vivevano i sopravvissuti ai lager, tra cui molti cattolici. C’è stata anche una donna, Gertrude Detzel: anche lei ha fatto 13 anni di lager e quando è stata liberata ha organizzato clandestinamente tante comunità cattoliche proprio qui nella città di Karaganda.

Ad agosto dello scorso anno abbiamo aperto il processo diocesano per la sua beatificazione. Poi arriva il ’91, arriva l’indipendenza e tutti finalmente possono uscire dal sottosuolo. Sono arrivati qui, invitati, anche tanti sacerdoti, soprattutto dalla Germania e dalla Polonia, a organizzare le strutture ecclesiastiche, a costruire le chiese, a organizzare la vita delle parrocchie. Ecco, io, qui vedo, da un lato il coraggio che hanno avuto i primi missionari e dall’altro un limite, cioè che si rivolgevano solo, diciamo, ai cattolici della loro nazionalità. In più è successo che dopo l’indipendenza molti cattolici, soprattutto tedeschi e polacchi, sono ritornati alla loro patria d’origine. Quindi queste comunità, che dopo il ’91 erano molto vive e molto numerose, si sono andate nel tempo rimpicciolendo. Alla luce di questa storia, la preoccupazione più grande che vivo è domandarci se tutti i sacrifici che sono stati chiesti alle generazioni di credenti prima di noi sono stati utili oppure no. Siamo destinati a scomparire? Oppure il Signore ci sta chiedendo qualcosa?

Che risposte si dà?

Quello che a me sembra di intravvedere e che dobbiamo godere del fatto che in una terra che era atea si è potuto e si possa vivere la fede, una fede che rende la nostra vita bella, attraente, gioiosa e come noi allora possiamo essere aperti – come ripeteva Papa Benedetto, ripreso da Papa Francesco – essere attraenti per tutti, compresi i kazaki, che sono il 78% della popolazione e che sono di tradizione musulmana. Le due strade che io ho cercato di proporre ai sacerdoti, alle suore e ai laici della diocesi in questi miei sette anni e mezzo di servizio sono la bellezza e la carità. Un esempio che faccio riguarda il fatto che nella cattedrale di Karaganda c’è l’unico grande e bellissimo organo, un dono dell’Austria, (altri due sono nelle accademie musicali di Almaty e di Astana). In genere, da aprile a ottobre, circa due volte al mese, facciamo dei concerti di musica sacra organistica. La cattedrale è strapiena, con la gente in piedi. Questo vuol dire che il cuore di ogni uomo, al di là della sua nazionalità, della sua appartenenza religiosa, ha una sete enorme di bellezza. Una bellezza che ti conduce al mistero, a Dio. L’altro esempio è che nel fine settimana tutte le giovani coppie – musulmani, ortodossi, protestanti – vengono a farsi fotografare con lo sfondo della cattedrale, che è stata costruita in un gotico moderno, molto bella, ed è impressionante. A volte non sanno neanche dove vengono. Io li incontro per fare loro gli auguri e chiedo: ma perché siete venuti qui? E loro si meravigliano: dove trovare nelle nostre città un castello così bello? E quindi diventa un motivo per iniziare un dialogo anche con loro.

Poi c’è la carità. Noi, fuori dei recinti delle nostre chiese parrocchiali, non possiamo fare nulla come Chiesa. Vale anche per le altre religioni nella città. Quando facciamo le riunioni dei sacerdoti o delle suore non possiamo, come invece era possibile negli anni Novanta, affittare spazi (sanatori, case di riposo…) che si usavano ancora nell’epoca sovietica. Dobbiamo organizzarci all’interno delle nostre strutture, perché la libertà religiosa non è ancora del tutto perfezionata. Ma quando viene un uomo con un bisogno urgente, io sono certo che, attraverso quel pezzo di pane o quella medicina che riusciamo a dare loro, passa di più, passa l’amore di Cristo per loro. Questo è il miracolo. Una volta le suore di Madre Teresa, che vivono con una trentina di senzatetto in una città industriale vicina e dove c’è una grande acciaieria, in inverno, aprono a un uomo che si presenta alla loro porta. Chiede di essere accolto ma ha la tubercolosi. Non sapevano cosa fare. Poi si ricordano di un piccolo bagno che avevano, lo puliscono, buttano via un materasso e lo fanno stendere lì. Quest’uomo, rivolgendosi alle suore, dice: “Se il paradiso c’è, deve essere come questo bagno!”.

Ci racconta un suo ricordo personale di ciò che la colpì di più quando cominciò la sua missione in questa terra? E cosa di questo popolo, crocevia di altri popoli e culture, è riuscito poi nel tempo ad apprezzare di più?

Arrivando qui ho trovato una grande distruzione, ciò che è stato il frutto dell’agonia dell’Unione Sovietica. Ti alzavi al mattino e non sapevi se c’era l’acqua fredda o l’acqua calda o addirittura se ci fosse l’acqua. Mi ricordo una settimana, 40 gradi sottozero per le strade, senza riscaldamento. La città non era illuminata di notte, la corrente c’era e non c’era…  Però non era questo ciò che più mi ha scioccato. La cosa che mi ha colpito di più era la distruzione della responsabilità della persona umana. L’uomo sovietico negli ultimi anni non era più responsabile di nulla. Questo tra gli adulti, invece tra i giovani, il contrario. E questa è la cosa proprio bella che io ho incontrato. Ho avuto la possibilità di insegnare per sei anni all’Università Statale di Karaganda Lingua e cultura italiana. Mi ricordo che desiderio, che sete avevano i giovani di dare un senso alla loro vita. Non sui libri, ma con le canzoni popolari italiane, con la cucina italiana, cucinando gli spaghetti, la pizza, il tiramisù, percepivano che c’era qualcosa che non avevano trovato fino ad allora e cominciavano a venire.

Ci trovavamo, studiavamo, cantavamo, avevamo affittato una sala dove io andavo tutti i venerdì. E da qui nasceva una caterva di domande. Questo è il miracolo secondo me più grande che avevo visto e cioè che la loro vita cambiava. Non sapevano perché, sta di fatto che la loro vita diventava bella. Mi ricordo un giovane kazako che dopo dieci anni ha detto: “È Gesù, è Gesù che mi ha cambiato la vita, chiedo il battesimo!”. E con lui tanti altri. Aggiungo che il popolo kazako è un popolo di una umanità molto, molto grande, di una capacità di accoglienza grandissima, soprattutto degli anziani. È Impressionante. La parola ‘kazako’ in gergo vuol dire ‘vagabondo’, ‘uno che si muove nella steppa’, ‘nomade’. Probabilmente in quelle condizioni di vita dei loro antenati hanno ereditato questi valori umani che in qualche modo sono rimasti. 

Eccellenza, come ricorda la visita di Giovanni Paolo II nel Paese, 21 anni fa? E come è cambiato il Kazakhstan sotto il profilo ecclesiale, ecumenico, sociale?

È stata impressionante quella visita che tra l’altro nessuno negli ultimi giorni si aspettava più. C’era stato il tragico episodio dell’attacco terroristico dell’11 settembre… Tutti hanno apprezzato, dal presidente alla gente più semplice, la decisione e il coraggio che il Papa ha avuto nel venire, nonostante quella situazione di paura a livello mondiale. C’è da aggiungere un’altra cosa: che nessuno sapeva chi era il Papa di Roma, il capo dei cattolici di tutto il mondo. In quegli anni cominciavano appena ad apparire i telefoni, internet. Del resto noi in Europa non sapevamo neanche dove stesse il Kazakhstan. Ma la curiosità e il desiderio di capire ha mobilitato tantissima gente. E alla Messa ci saranno state circa 40.000 persone. In questi anni è cambiato moltissimo: la globalizzazione permette alla gente di vivere in tempo reale quello che accade in tutto il mondo. Sembra dunque di vedere che tutta questa aspettativa non ci sia. In realtà è molto, molto alta, ai livelli del governo, della presidenza della Repubblica. Il presidente ha invitato con calore Papa Francesco, certo che la sua presenza fisica fosse un contributo notevole alla concordia e alla pace in tutto il mondo.

Come ha reagito all’annunciata assenza del Patriarca Kirill al Congresso dei leader mondiali e delle religioni tradizionali?

Con grande dispiacere e dolore, perché ai margini di questo Congresso delle religioni sicuramente, se fossero stati presenti entrambi, Papa Francesco e il Patriarca Kirill si sarebbero inevitabilmente dovuti incontrare. E dopo quell’incontro che hanno avuto online [a Cuba, ndr] avrebbe potuto essere veramente un’occasione molto, molto efficace, incisiva per un giudizio su quello che sta accadendo, dato da un punto di vista non politico ma proprio religioso. Penso anche ai musulmani, da questo punto di vista: se Dio è uno, noi siamo tutti suoi figli e figlie e quindi fratelli e sorelle tra di noi. E quindi, come il Papa va gridando, la guerra è la cosa più orrenda, inconcepibile che ci possa essere. Tanto più quando avviene tra popoli cristiani.

Il 14 settembre – per i cristiani festa della Esaltazione della Croce – il Papa celebrerà con voi la Messa. Che valore speciale avrà nel contesto più ampio in cui la guerra in Ucraina miete calvari dolorosissimi e pone serie preoccupazioni globali?

Ci farà ricordare tutte le sofferenze che sono avvenute in queste terre: pensi che Karaganda era il centro di un sistema di lager grande come la Francia, a una trentina di chilometri nella steppa da qui, c’è una fossa comune dove sono sepolti di tante nazionalità circa 20.000 prigionieri di guerra. A Dolinka, il centro direzionale di questo sistema di lager, oggi c’è un museo che ricorda questa terribile storia. Quindi sicuramente la Festa della Croce ci ricorda che, come è stato per Gesù, la salvezza non può che passare attraverso la croce. Obbedire alla volontà di Dio può portare a una vita nuova per la persona. E se ci sono uomini cambiati a una società nuova.