Il Papa: chiedo umilmente perdono agli indigeni per il male fatto da tanti cristiani

Vatican News

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

“Vorrei ribadirlo con vergogna e chiarezza: chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene”

Nella distesa verde di Maskwacìs, tra i teepee, le tradizionali tende in pelle e corteccia di betulla, e targhe in memoria di chi dalle scuole residenziali non è più tornato a casa, la voce di Francesco risuona quasi come un soffio. È potente, tuttavia, il “grido di dolore” che emerge dalle parole del Papa per un passato di crudeltà, caratterizzato da “devastanti” e “catastrofiche” politiche di assimilazione e da “abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali” contro gli indigeni, di cui anche la Chiesa cattolica si è resa responsabile. 

Sono profondamente addolorato: chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato.

Prima tappa tra gli indigeni 

Il viaggio papale in Canada inizia con la visita in questa terra di ancestrale presenza indigena. Terra di orsi e mirtilli nel centro di Alberta e a un centinaio di chilometri a sud di Edmonton, conosciuta come “Bear hills” e fino al 2014 denominata Hobbema. Vi risiedono due comunità Cree First Nations, una nella riserva Ermineskin, a nord, l’altra nella riserva Samson, a sud.

Oggi sono qui a ricordare il passato, a piangere con voi, a guardare in silenzio la terra, a pregare presso le tombe

Non l’incontro con le autorità segna quindi, come sempre nei viaggi apostolici, il primo appuntamento pubblico del Papa in Canada, ma l’abbraccio – tanto ideale, quanto reale – a First Nations, Métis e Inuit. Un modo per rendere concreta quell’idea di “pellegrinaggio penitenziale” con la quale il Pontefice ha voluto definire la sua 37.ma trasferta internazionale.

Perdono, guarigione, riconciliazione

Dopo l’arrivo di ieri a Edmonton, che già aveva visto un primo momento con gli aborigeni tra mani baciate e intrecciate e frasi sussurrate all’orecchio, il Papa entra oggi in “casa” delle comunità originarie. Vi giunge in sedia a rotelle, con le mani giunte, mentre un uomo anziano alterna voce e tamburo in un canto in lingua Cree. Subito il Papa si reca nel cimitero delle popolazioni indigene e prega tra nude croci in legno. Poi entra nella chiesa dedicata alla Madonna dei sette dolori e benedice un lungo striscione rosso con i nomi dei bambini delle scuole residenziali che viene poi fatto sfilare nella platea del Bear Park Pow-Wow Ground, tra musica, danze, canti tradizionali. Da questa struttura circolare, sul palco bianco, affiancato dai capi indigeni, il Papa ribadisce quella richiesta di perdono che aveva suggellato, lo scorso primo aprile, i tre giorni di incontro e ascolto in Vaticano con le popolazioni autoctone canadesi.

Attendevo di giungere tra voi… Giungo nelle vostre terre natie per dirvi di persona che sono addolorato, per implorare da Dio perdono, guarigione e riconciliazione, per manifestarvi la mia vicinanza, per pregare con voi e per voi.

I mocassini in ricordo di chi non c’è più 

E alle giornate di Roma Papa Francesco fa riferimento nel suo discorso interamente pronunciato in spagnolo dinanzi al premier Justin Trudeau e ai capi indigeni provenienti da tutto il Paese, con i loro copricapi piumati ornati da perline. Il Papa ricorda infatti le due paia di mocassini offertegli in dono quattro mesi fa: “Segno della sofferenza patita dai bambini indigeni”. Maskwacìs è sede dell’ex Ermineskin Residential School, uno dei più grandi siti scolastici residenziali del Canada, dove, secondo il Centro nazionale per la verità e la riconciliazione (NCTR), numerosi studenti sono deceduti a causa di sovraffollamento e malattie.

In loro ricordo il Papa consegna nuovamente le simboliche calzature in perline rosse, che le First Nations – come spiegavano in una nota – avevano donato ad aprile “come segno della volontà di perdonare se c’è un’azione significativa da parte della Chiesa”. “Mi era stato chiesto di restituire i mocassini una volta arrivato in Canada – scandisce Francesco – lo farò al termine di queste parole, per le quali vorrei prendere spunto proprio da questo simbolo, che ha ravvivato in me nei mesi passati il dolore, l’indignazione e la vergogna. Il ricordo di quei bambini infonde afflizione ed esorta ad agire affinché ogni bambino sia trattato con amore, onore e rispetto”.

Un futuro di giustizia

Quei mocassini, però, “parlano anche di un cammino, di un percorso che desideriamo fare insieme”:

Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto a un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione

Fare spazio alla memoria

Lo sguardo del Papa è proiettato all’avvenire. Che non significa però cancellare il passato, anzi. La tappa a Maskwacìs vuole proprio “fare spazio alla memoria”, chiarisce il Pontefice. Anzitutto la memoria di usanze, legami e stili di vita sviluppati per secoli in questa terra “trattata come un dono del Creatore”. Poi la “memoria sanguinante” di quanto accaduto nelle scuole residenziali, a causa di politiche di assimilazione e di una mentalità colonizzatrice da cui molti cristiani non sono stati esenti.

Il luogo in cui ci troviamo fa risuonare in me un grido di dolore, un urlo soffocato che mi ha accompagnato in questi mesi

Cicatrici aperte

Jorge Mario Bergoglio parla di “ferite”, di “sofferenze”, di “cicatrici ancora aperte”, di “traumi” che rivivono nell’animo di questa gente ogni volta che vengono rievocati. “Mi rendo conto che anche il nostro incontro odierno può risvegliare ricordi e ferite, e che molti di voi potrebbero trovarsi in difficoltà mentre parlo”, ammette. Tuttavia “è giusto fare memoria, perché la dimenticanza porta all’indifferenza e – aggiunge, citando Eli Wiesel – l’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza”.  

Allora anche se “colpisce, indigna, addolora”, ricordare quanto avvenuto in questi istituti è “necessario”.

Necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto

Culture soppresse, abusi fisici e verbali 

Ciò che è avvenuto è invece quello che alcuni sopravvissuti delle delegazioni del Canada hanno raccontato al Papa durante le udienze nel Palazzo apostolico. Racconti “di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue e culture sono state denigrate e soppresse; di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti”. Ne è vivido la testimonianza resa, prima del discorso del Papa, dal capo indigeno Wilton Littlechild, anch’egli venuto a marzo a Roma, a 77 anni, con il deambulatore.

Un errore incompatibile col Vangelo di Cristo

Francesco ringrazia lui e tutti gli indigeni “per avermi fatto entrare nel cuore tutto questo, per aver tirato fuori i pesanti fardelli che portate dentro. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali”.

“Sebbene la carità cristiana fosse presente e vi fossero non pochi casi esemplari di dedizione per i bambini, le conseguenze complessive delle politiche legate alle scuole residenziali sono state catastrofiche”, riconosce il Papa.

“Si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo”

“Addolora – aggiunge – sapere che quel terreno compatto di valori, lingua e cultura, che ha conferito alle vostre popolazioni un genuino senso di identità, è stato eroso, e che voi continuiate a pagarne gli effetti. Di fronte a questo male che indigna, la Chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli”.

Le scuse, punto di partenza 

Queste scuse – chiarisce ancora Papa Francesco, concordando “pienamente” con gli indigeni – “non sono un punto di arrivo”, bensì “il primo passo, il punto di partenza”. “Sono anch’io consapevole che, guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato e che, guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio”.

Importante, in tal senso, “condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti”. Allo stesso tempo, il Papa prega e spera “che i cristiani e la società di questa terra crescano nella capacità di accogliere e rispettare l’identità e l’esperienza delle popolazioni indigene”. E auspica “che si trovino vie concrete per conoscerle e apprezzarle, imparando a camminare tutti insieme”.  

Il pellegrinaggio in Canada

Da qui, una chiosa finale sul pellegrinaggio che proseguirà fino al 30 luglio: “Toccherà luoghi tra loro distanti, tuttavia non mi permetterà di dare seguito a molti inviti e visitare centri come Kamloops, Winnipeg, vari siti nel Saskatchewan, nello Yukon e nei Territori del Nordovest. Anche se ciò non è possibile, sappiate che siete tutti nei miei pensieri e nella mia preghiera”, assicura il Papa. “Sappiate che conosco la sofferenza, i traumi e le sfide dei popoli indigeni in tutte le regioni di questo Paese”. Dinanzi ad esse, il Papa chiede “silenzio e “preghiera”. Silenzio per “interiorizzare il dolore”. Preghiera al Dio del bene e della vita di fronte al “male” e alla “morte”, perché “sia Lui a farci camminare insieme”.

Un copricapo in dono al Papa

Al termine del discorso, interrotto più volte da applausi e accompagnato dalle lacrime dei presenti, due uomini salgono a ritmo di un suono cadenzato di tamburi sul palco per donare al Papa un copricapo piumato al Papa, segno di autorità e di una fiducia ritrovata. In tanti salgono i gradini per salutare e stringere la mano al Papa: consegnano doni e pergamene, Francesco – in piedi, appoggiato sul bastone – ricambia con un rosario. Alla fine indossa una stola in tela grezza arancione e benedice la folla con la quale recita in inglese la preghiera del Padre Nostro.