Debora Donnini – Città del Vaticano
Papa Francesco porta sull’altare “le sofferenze” dell’amato popolo birmano, segnato dalla violenta repressione delle manifestazioni che attraversano il Myanmar, dal golpe del primo febbraio scorso, che ha portato al potere la giunta militare. Il Papa prega con forza il Signore perché converta i cuori di tutti alla pace e ricorda che “il Signore sempre ascolta il grido del suo popolo”. Questa vicinanza e questa preghiera le esprime anche con la Messa di stamani, celebrata presso l’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro, e dedicata ai fedeli del Myanmar residenti a Roma, nei cui occhi si legge quel “grido di dolore” di cui parla Francesco nell’omelia. Una Messa in cui la Prima e la Seconda Lettura vengono proclamate in birmano e anche alcuni canti sono nella lingua del Paese asiatico, rendendo ‘vicino’ questo Paese lacerato, così come hanno fatto i tanti appelli per il Myanmar rivolti dal Papa in questo tempo.
Impegnarsi anche nelle scelte sociali e politiche
Ai fedeli di un Paese così segnato dal dolore e dalla paura, il Papa chiede di custodire la fede, l’unità e la verità, rischiando anche la vita per il Vangelo. Lo fa a partire proprio dal brano in cui Gesù, nel momento del doloroso congedo dai suoi discepoli e da questo mondo, prega il Padre per i suoi amici usando il verbo custodire. “Custodire la verità”, spiega, non significa difendere delle idee, “diventare guardiani di un sistema di dottrine e di dogmi”, ma restare legati a Cristo perché Lui è “la verità”. La preghiera per i suoi discepoli è dunque quella che non seguano “i criteri” del mondo, piegando il Vangelo a logiche umane. “Custodire la verità significa essere profeti in tutte le situazioni della vita” e esserne testimoni anche quando significa andare controcorrente:
A volte, noi cristiani cerchiamo il compromesso, ma il Vangelo ci chiede di essere nella verità e per la verità, per la propria verità, donando la vita per gli altri. E dove c’è guerra, violenza, odio, essere fedeli al Vangelo e artigiani di pace significa impegnarsi, anche attraverso le scelte sociali e politiche, rischiando la vita. Solo così le cose possono cambiare. Il Signore non ha bisogno di gente tiepida: ci vuole consacrati nella verità e nella bellezza del Vangelo, perché possiamo testimoniare la gioia del Regno di Dio anche nella notte buia del dolore e quando il male sembra più forte.
L’unità parte da ciascuno di noi
Il Papa sa che “una malattia mortale” come è la divisione si sperimenta nelle famiglie, nelle comunità, tra i popoli, perfino nella Chiesa. Invidie, le gelosie, la ricerca di interessi personali invece che del bene di tutti, giudizi contro gli altri sono peccati contro l’unità. E i “piccoli conflitti” che ci sono tra di noi, si riflettono poi nei grandi conflitti, come quello che vive in questi giorni “il vostro Paese”, afferma ricordando che “quando gli interessi di parte, la sete di profitto e di potere prendono il sopravvento, scoppiano sempre scontri e divisioni”. E mentre la divisione viene dal diavolo, Gesù supplica il Padre per l’unità:
Quanto bisogno c’è, soprattutto oggi, di fraternità! So che alcune situazioni politiche e sociali sono più grandi di voi, ma l’impegno per la pace e la fraternità nasce sempre dal basso: ciascuno, nel piccolo, può fare la sua parte. Ciascuno può impegnarsi a essere, nel piccolo, un costruttore di fraternità, a essere seminatore di fraternità, a lavorare per ricostruire ciò che si è spezzato invece che alimentare la violenza. Siamo chiamati a farlo, anche come Chiesa: promuoviamo il dialogo, il rispetto per l’altro, la custodia del fratello, la comunione!
Nella Chiesa non entri la logica dei partiti che distrugge
“Non lasciamo – prosegue a braccio – entrare nella Chiesa la logica dei partiti, la logica che divide, la logica che ci mette – ognuno di noi – al centro, scartando gli altri. Questo distrugge: distrugge la famiglia, distrugge la Chiesa, distrugge la società, distrugge noi stessi”.
La preghiera è l’unica “arma” dei cristiani in mezzo alle armi di morte
Il primo punto della sua riflessione era stato proprio il custodire la fede per non lasciarsi annientare di fronte al male, ripiegandosi nell’amarezza di chi è sconfitto. Gesù, infatti, pregava “alzati gli occhi al cielo”:
Custodire la fede è tenere lo sguardo alto verso il cielo mentre sulla terra si combatte e si sparge il sangue innocente. È non cedere alla logica dell’odio e della vendetta, ma restare con lo sguardo rivolto a quel Dio dell’amore che ci chiama ad essere fratelli tra di noi.
La preghiera, infatti, non è una fuga dai problemi, ma “al contrario, è l’unica arma che abbiamo per custodire l’amore e la speranza in mezzo a tante armi che seminano morte”. Anche gridare la nostra sofferenza a Dio è preghiera. “In certi momenti – afferma – è una preghiera che Dio accoglie più delle altre perché nasce da un cuore ferito, e il Signore sempre ascolta il grido del suo popolo e asciuga le sue lacrime”. E ricorda in proposito le parole che una donna anziana diceva ai suoi nipoti: “Anche arrabbiarsi con Dio può essere una preghiera”. Quindi, l’invito a guardare in alto e custodire la fede, ricordando che Gesù ancora oggi “prega il Padre e intercede per tutti noi, perché ci custodisca dal maligno e ci liberi dal potere del male”. E, dunque, non bisogna perdere la speranza.
Sacerdote birmano: grazie al Papa per il suo conforto
Anche alla preghiera dei fedeli viene ricordato il Myanmar, in particolare i giovani perché abbiano il coraggio di costruire un futuro di speranza fondato sulle basi del bene comune e degli autentici valori umani e religiosi. Nel saluto finale, poi, un sacerdote birmano esprime la profonda gratitudine dei birmani per la vicinanza del Papa culminata in questa toccante Celebrazione Eucaristica, che definisce occasione di guarigione. “Nelle nostre lacrime, nell’amaro sconforto, nei momenti in cui la comunità mondiale ci ha abbandonato – prosegue – noi siamo stati confortati, guariti dalle parole del Santo Padre”. Negli ultimi tre mesi il Santo Padre ha pregato più di sei volte per la pace in Myanmar, afferma, menzionando in particolare quando disse: “’Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar, stendo le braccia e dico cessi la violenza’”. Dava voce così, afferma il sacerdote, “al gesto iconico di Suor Anne in ginocchio davanti alle forze di sicurezza che scongiurava per la vita dei giovani, sono risuonate in ogni famiglia in Myanmar”. Ricordato anche il viaggio apostolico del Papa nel 2017 in Myanmar, un Paese che ora è “nelle mani di Dio”. “Le nostre lacrime, il nostro amaro sconforto, la nostra pace distrutta, chiedono un intervento divino. Noi crediamo fermamente – dice – che questo evento straordinario in Roma col nostro Pastore sia il punto di partenza dell’intervento di Dio nella nostra storia”. E, in conclusione, ribadisce che “la pace è possibile” ed è “l’unica strada”.