Monsignor Visvaldas Kulbokas, in un’intervista ai media vaticani, descrive la difficile realtà quotidiana per la popolazione ucraina ma individua anche spazi di speranza e solidarietà: l’aiuto dei volontari nel Paese è segno di umanità nel buio del conflitto
Svitlana Dukhovych – Città del Vaticano
Nell’imminenza dei mille giorni dall’inizio del conflitto in Ucraina, la riflessione per i media vaticani del nunzio apostolico a Kyiv, tra la disillusione nella capacità di risoluzione da parte degli organismi internazionali e la fiducia coltivata attraverso l’opera di una Chiesa che non smette di infondere speranza e di essere vicino a una popolazione che soffre da troppo tempo per l’aggressione militare russa.
Monsignor Kulbokas, per aiutare le persone a coltivare la speranza è necessario alleviare il loro dolore accompagnandole nel dare senso a questa esperienza. Come è stato svolto questo compito dalla Chiesa in Ucraina in questi 1000 giorni della guerra?
Io penso non soltanto alle persone che vivono nei territori sotto il controllo del governo dell’Ucraina, ma anche a quanti sono fuori questi territori e soprattutto ai prigionieri. Aiutare queste persone è molto difficile perché rimane solo la preghiera, è l’unica forza. Ma ho tanta fiducia, perché sono consapevole che la preghiera può fare dei miracoli. I pastori stanno accanto alla propria gente e questo è il dono della Chiesa cattolica e anche di altre Chiese e comunità di fede. Ho visto questo, per esempio, a Kherson dove ho sentito storie dei sacerdoti che sono rimasti praticamente gli unici punti di riferimento per la gente e per questo la gente è molto grata ai sacerdoti. Quindi, questo stare insieme è molto importante. È molto importante anche l’azione dei cappellani militari perché i militari spesso non sanno se l’indomani saranno vivi o no e lì la domanda del senso della vita è ancora più acuta. Ho sentito diversi racconti di volontari che portano i medicinali ai soldati che spesso sentono dire dai militari: “Per me sei come Gesù, perché sei arrivato fin qui a portarmi dei medicinali”. Quindi c’è un senso di umanità molto forte. E poi gli stessi cappellani militari parlando, per quanto possibile, con i militari, sempre gli ricordano: “Guardate, anche se perdeste la salute, la vita, oppure i vostri familiari, qui non finisce tutto, perché c’è qualcuno che vi vuole bene nonostante tutto: e questo è Dio”. Direi che questa speranza per i militari è di fondamentale importanza perché veramente le difficoltà sono tante. Se ci riferiamo ai 1000 giorni dall’inizio di guerra su larga scala, possiamo vedere che la guerra non è in discesa, anzi: nell’anno 2023 ci sono stati più morti che nel 2022. Se parliamo di quest’anno 2024, ci sono più morti rispetto al 2023. Quindi è in crescita, la sofferenza aumenta e per questo è molto importante dare senso, il senso cristiano di fronte all’insicurezza e alla paura. Non oserei dire che la Chiesa sia riuscita a farlo in modo perfetto, ma ogni pastore o ogni fedele cerca di fare secondo le proprie forze.
Quale senso viene dato dalla gente in Ucraina ai giorni che passano dall’inizio dell’invasione russa?
La guerra continua da così tanto tempo e c’è un senso di sfiducia. Sfiducia perché il mondo ha organismi come le Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che poi si rivelano strutture non adeguate, incapaci di risolvere qualcosa. Anche perché nel Consiglio di Sicurezza c’è qualcuno che è direttamente implicato. Poi riguardo ai prigionieri, i loro familiari mi ripetono sempre: “Ma le Convenzioni di Ginevra quali effetti hanno? Qualcuno è capace di visitare i nostri prigionieri o no?”. I fatti ci dicono di no, non si riesce ad applicare o far applicare le Convenzioni. Quindi c’è molto questo senso di delusione per come l’umanità in quanto tale affronta questa problematica, evidentemente non solo qui in Ucraina ma anche in altre parti del mondo. Quindi, c’è un grande senso di sfiducia, di stanchezza. Però qui io non incontro tanta gente che conti i giorni. Lo fanno piuttosto in altri Paesi oppure lo vedo sui siti di informazione che lo fanno per ragioni di statistica. Invece, per esempio, a Kyiv siamo sopraffatti da tante questioni e spesso non si riesce neanche a tenere il conto dei giorni o dei mesi che passano. E questa domanda su quale senso si può dare al prolungarsi della guerra è molto profonda e me la pongo anch’io. Personalmente, il prolungarsi della guerra mi rende più in grado di capire le illusioni a cui spesso ci affidiamo, quindi la caducità delle illusioni. Ma umanamente parlando (la guerra) non ha nessun senso.
Come è la situazione umanitaria nel Paese. Quali sono i bisogni più urgenti in questo periodo?
Ci sono varie fasce di bisogni. Per esempio, gli ex prigionieri o i bambini che ritornano nel Paese e hanno bisogno di famiglie o strutture che li accolgano. Perciò una delle questioni è vedere quale diocesi o eparchia, quale congregazione religiosa ha le possibilità di accogliere queste persone. Un’altra sfida umanitaria è quella di coordinare gli aiuti umanitari perché nel 2024 gli aiuti sono diminuiti in modo drammatico rispetto al 2022. Ci vorrebbero dei gruppi in grado di dare fiducia ai donatori per realizzare progetti o iniziative laddove gli aiuti sono diminuiti. Un altro aspetto è questo: alcuni volontari venuti dall’Italia, dalla diocesi di Como, che collaborano con l’esarcato greco-cattolico di Kharkiv, mi hanno detto che in questi giorni hanno visto che nelle regioni intorno a Kharkiv c’è molta gente che ha bisogno proprio di tutto, a cominciare dalla legna per riscaldarsi ai prodotti per l’igiene, vestiti per l’inverno, acqua, cibo. Vedo sfide simili anche nella regione di Zaporizhzhia. So, per esempio, che nella regione di Kherson i sacerdoti portano alla gente acqua potabile. In molte regioni l’acqua potabile è un bene poco accessibile. Quindi, in realtà c’è bisogno un po’ di tutto.
Ci sono degli aspetti del servizio della Chiesa che, secondo lei, sono emersi in modo particolare nel contesto della guerra?
Certamente, ci sarebbero vari aspetti da affrontare. Uno lo abbiamo affrontato anche oggi con un pastore protestante. Abbiamo parlato del fatto che nel contesto della guerra è molto importante cercare i modi per stare uniti. Non si possono risolvere tutte le difficoltà che esistono tra le varie confessioni e comunità, ma è molto importante dare rilievo a ciò che ci unisce. Un altro aspetto molto importante è che la Chiesa e le Chiese svolgono il ministero di coscienza, sono voce della coscienza. Questo lo fanno, o almeno cercano di farlo, i cappellani militari con i comandanti, perché c’è modo e modo di affrontare la guerra: c’è un modo più umano e un modo meno umano e i cappellani militari stanno cercando di svolgere questo questa missione di essere voce della coscienza. Anche a livello globale, mi pare sia emersa questa esigenza che la Chiesa sia voce della coscienza. Perché prendiamo i responsabili della guerra: la Chiesa, evidentemente, non può costringere nessuno, ma sempre cerca di mantenere un minimo di contatti con tutti, cerca anche di trovare modi di dire, magari anche non direttamente, ma in modi che siano comprensibili, appellandosi appunto alla coscienza, all’urgenza di fermare la guerra. Evidentemente, è un ruolo difficile, ma questo è uno dei servizi principali della Chiesa, essere la voce della coscienza, cercando di capire con quali parole appellarsi alle coscienze. E continua a farlo.
Lei ha incontrato molti parenti – madri e padri, mogli, figli, sorelle e fratelli – dei prigionieri di guerra e delle persone scomparse. Cosa li aiuta a non cadere nella disperazione?
I parenti, evidentemente, hanno bisogno di molto sostegno spirituale. Quando li incontro, gli dico: “Quando voi pregate per i vostri cari, oppure se non siete credenti, quando pensate ai vostri cari – questo io lo so dai racconti dei prigionieri che sono stati liberati – la preghiera oppure anche il semplice pensiero si trasmette, arriva”. Ho sentito dei racconti degli ex prigionieri di guerra che dicevano che stavano pensando di suicidarsi per la disperazione o per le torture che stavano subendo, però li salvava o il pensiero su Dio, perché spesso la fede li salva, oppure il ricordo dei cari, dei familiari. Lo sappiamo che la preghiera o il pensiero arrivano, per così dire fisicamente, ai parenti e li incoraggiano. Però, evidentemente, c’è bisogno di accompagnare questi parenti in un modo più strutturato. Direi che non c’è ancora un lavoro sufficientemente ben fatto, per l’accompagnamento di queste persone, perché c’è bisogno di specialisti, di psicologi e spesso proprio di stare insieme a loro. A volte quando i familiari di prigionieri vengono a incontrarmi, anche il semplice parlare, il semplice sfogarsi, evidentemente è importante. Solo che è difficile abbracciare tutti, si tratta di migliaia di familiari perché ci sono migliaia di prigionieri. Ci sono delle iniziative anche della Chiesa volte a preparare i sacerdoti e i volontari delle Caritas per assistere queste persone. Perché sarebbe troppo banale dire a queste persone: “Tutto andrà bene”. Ci vuole una preparazione, anche specifica, per parlare con loro. Spesso non bisogna dire niente e stare solo accanto a loro, in silenzio.
Eccellenza, desidera aggiungere qualcosa?
Vorrei aggiungere che è sempre una grande gioia vedere gruppi di persone che continuano ad arrivare qui da vari Paesi: dall’Italia, dalla Polonia, dalla Francia, dalla Germania. A volte portano dei piccoli aiuti perché sono persone semplici. Questo, veramente, dà gioia. La vicinanza personale crea anche un certo contrasto perché nei mass media spesso la guerra viene discussa solo nei tratti statistici, quindi in quelli meno umani, oppure si fanno solo considerazioni con discorsi freddi. Invece le visite dei gruppi di preghiera o dei volontari sempre portano gioia perché fanno credere che c’è cuore, c’è umanità e già questo infonde speranza. La guerra è diabolica anche perché vuole uccidere la fiducia nell’umanità, rischia di distruggere la fiducia in tutte le strutture internazionali, in tutte le unioni dei Paesi, perché i risultati è come se non ci fossero. La testimonianza dei volontari e di chi viene qui crea un contrasto mostrando che c’è cuore, c’è attenzione, c’è preoccupazione, c’è umanità. E vorrei cogliere l’occasione di ringraziare ciascuno di loro per le iniziative che realizzano.